C'è un capitolo speciale nella luminosissima carriera di Zlatan Ibrahimovic, quello nel quale ha cominciato a consacrarsi come il re incontrastato dei campionati nazionali. Quello a tinte nerazzurre, cominciato per l'imprevedibile congiunzione astrale di Calciopoli e conclusosi con la cessione altrettanto difficile da pronosticare al Barcellona in cambio di Eto'o più cospicuo conguaglio. Nell'intervista esclusiva rilasciata a Sky Sport, l'asso svedese racconta tappa per tappa la sua esperienza all'Inter, partendo proprio dall'addio alla Juventus:
"Al primo anno di Juve sono stato eletto miglior straniero del campionato, poi è uscito fuori questo problema (Calciopoli ndr) e sono andati in Serie B. C'erano i Mondiali in Germania quell'estate, c'erano tanti casini: hanno mandato via Moggi e Giraudo; poi Secco, che era diventato direttore sportivo, mi chiama per discutere il contratto. La situazione era strana perché il giorno prima Secco mi diceva a che ora era l'allenamento, il giorno dopo mi chiama per discutere il contratto. In questo club, che ha una grande identità, le cose si fanno alla grande. Tutto passava da Moggi, Secco era solo un messaggero. Notavo che il feeling era differente, non mi piaceva più; poi con la retrocessione ho pensato che sarebbero serviti degli anni alla Juve per ritornare a grandi livelli. E la Juve, quando ci ho giocato io, era la più forte di tutti, per i giocatori che aveva in rosa e per l'allenatore (Capello ndr). Volevano che restassi in bianconero rinnovando il contratto, ma a me serviva giocare a livello top per diventare quello che volevo diventare. Io non ero ancora al massimo del mio potenziale, per questo motivo ho pensato: 'se vado in Serie B, perdo un anno'".
L'ARRIVO ALL'INTER - "Mi volevano Inter e Milan, almeno se ne parlava. Poi Mino (Raiola ndr) mi ha chiesto: 'vuoi diventare il più forte giocatore del mondo o il più ricco?'. Io gli ho risposto: 'Più forte'. E lui: 'Bravo, quando sei più forte diventi anche il più ricco'. Quindi la mia scelta non è stata economica, ma per fare la differenza e restare nella storia. La scelta tra Milan e Inter era questa: i rossoneri avevano già vinto la Champions, mentre i nerazzurri non vincevano lo scudetto da 17 anni. Io ho pensato: all'Inter sono passati Ronaldo il Fenomeno, Baggio, Vieri, Pirlo e Seedorf e nessuno di questi ha vinto in nerazzurro. E io dicevo a me stesso: 'Se vado all'Inter e vinco, ho fatto una cosa che gli altri non potevano fare'. Poi se vinci dopo 17 anni, rimani nella storia, non sei uno dei tanti. E' per quello che ho scelto l'Inter. Lì c'erano Mancini, Branca, che fece di tutto per portarmi a Milano. Ho fatto questo passo, però non è stato la scelta più accettabile per gli juventini. Con me, all'Inter, è venuto Vieira (anche lui dalla Juve ndr), poi c'erano Crespo, Zanetti, Adriano, Maicon: la squadra era completa, dovevamo solo giocare e vincere per portare a casa i trofei che la squadra meritava. E ho vinto dopo 17 anni il primo scudetto”.
SECONDO ANNO ALL'INTER - "Abbiamo rivinto lo scudetto. Mancini era cool, aveva un rapporto speciale con me perché era un ex giocatore: mi metteva pressione addosso. Nelle ultime 6-7 giornate del campionato, quando non giocavo, la Roma aveva recuperato lo svantaggio, e ci aveva superato a fine primo tempo dell'ultima gara. Io ero infortunato, avevo male al ginocchio, ma mi ricordo cosa disse Mancini: 'Non mi interessa se sta male o no, lui deve entrare in campo. Il problema è vostro', ha detto parlando al dottor Combi. Passano venti minuti, siamo ancora sullo 0-0 e pioveva tanto quel giorno. Entro e mi ricordo come è stata l'azione: prendo il pallone, tiro ma la palla va fuori. Seconda azione mi arriva la palla, proprio come prima, vado in mezzo al campo punto la porta, tiro ed entra. Quando la palla è entrata ho visto la gioia sui volti degli altri: quello è il momento in cui capisci che hai fatto qualcosa di differente. E quando vedi queste cose, sei più motivato e hai quell'adrenalina che ti fa sentire untouchable, intoccabile, il più forti di tutti. Come Hulk, anche se così mi ci sento anche normalmente”. Negli spogliatoi, a fine partita, Mancini andava da tutti e diceva 'Grazie a Ibra'. E io dicevo: 'Prego'. Ho giocato in grandi club, con grandi giocatori, e ho vinto ovunque sia stato: quella è la mia fortuna, ma anche la mia mentalità che nasce da lontano. Dove vado, vinco. Perché metto la pressione su me stesso e agli altri per arrivare alla vittoria".
IL TERZO ANNO, ARRIVA MOURINHO - "Cambiano allenatore, arriva Mourinho per Mancini. Quando porti lo Special One, porti tutto il pacco: allenatore e media. Era un tipo che mi stimolava, duro, che ti dà responsabilità. Però, allo stesso tempo, è uno che vuole indietro i risultati; il campionato lo vinciamo, divento per la prima volta capocannoniere con l'Inter: se sei top scorer in Italia, allora puoi diventarlo in ogni campionato. La Serie A è il campionato più difficile perché lì conta vincere, non giocare bene: tatticamente sono più avanti di tutti. Vinciamo lo scudetto, divento il miglior straniero 2-3 volte in sei anni, poi in Italia che per me è il campionato top of the top".
QUARTO ANNO, L'ADDIO - "Inizia la preparazione per il quarto anno, ma già alla fine del terzo sentivo che volevo un nuovo stimolo, qualcosa di nuovo. C'era la possibilità di andare al Barcellona, che quell'anno aveva vinto la Champions. Ma non era facile portarmi via, visto che il rapporto con Moratti era grande. C'era Maxwell che aveva appena firmato per il Barça, e allora scherzavo con lui dicendogli che gli avrei dato le mie scarpe da portare in Spagna e che poi avrebbe dovuto aspettarmi là. Dopo uno o due giorni, mi sa che si sono incontrati i dirigenti di Inter e Barcellona e dopo 20 minuti era tutto fatto: Mino mi chiama e mi dice 'andiamo'. Firmato il contratto, ho fatto la conferenza stampa col Barcellona, mi presento al Camp Nou davanti a 70mila persone e mi arriva un'adrenalina che avrei voluto giocare il giorno stesso. Però è stato molto bello, poi la verità sul bacio dello stemma era che è un un ordine dato dal Barcellona ai nuovi arrivati: non volevo cominciare col piede sbagliato, volevo che le cose andassero bene. Quando sono arrivato al Barcellona, così come successo con la Juve, mi sembrava di giocare a Fifa: avevano assemblato un Dream Team. Per me, ogni allenamento era come giocare a Fifa".
Autore: Mattia Zangari / Twitter: @mattia_zangari
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