Oggi Roberto Boninsegna compie 70 anni e alla Gazzetta dello Sport, colui che fu ribattezzato Bonimba da Gianni Brera, parla un po' di tutto. Tanto, come sempre, di Inter. E non sono soltanto storie a lieto fine. Anzi. 

Voltandosi indietro, che cosa ricorda più volentieri?
"I miei anni con l’Inter che sarà sempre la mia squadra, malgrado i tanti tradimenti clamorosi. Primo tradimento. Cresco nell’Inter e sto per esordire in prima squadra, a Bergamo nel ’63, a 19 anni. Herrera, però, schiera ancora Di Giacomo con un braccio ingessato e pochi giorni dopo mi mandano in prestito al Prato, in B. A fine stagione torno a Milano, sperando di rimanere almeno vicino a casa, ma Allodi mi dice: “O vai a Potenza, o smetti di giocare”. Sono costretto ad andare, sempre in B. Intanto l’Inter vince tutto e io soffro perché avrei potuto esserci anch’io. Poi torno, ma dopo un altro giro largo, sempre in prestito, perché da Potenza mi mandano al Varese, in A, con cui debutto proprio contro l’Inter. Quindi la parentesi, bellissima, al Cagliari, dove vado a titolo definitivo. Finiamo secondi nel ’69 e sento che può arrivare lo scudetto, ma Scopigno mi dice che bisogna sacrificare uno tra me e Riva. Gigi non vuole lasciare la Sardegna e capisco che devo partire io, però dico che accetto soltanto se torno all’Inter. Mi accontentano, anche perché in cambio arrivano Gori, Poli e Domenghini, che non me l’ha mai perdonata".

E finalmente amore ritrovato...
"Arriviamo secondi proprio dietro il Cagliari, ma sono felice perché mi sento a casa e Corso mi ripete che con me la Grande Inter avrebbe vinto di più. La gioia più bella rimane quel gol in rovesciata, contro il Foggia a San Siro, nel giorno in cui festeggiamo lo scudetto del ’71. Per due campionati sono capocannoniere, ma in realtà sarebbero tre, perché nel ’74 mi tolgono un gol contro il Cesena, dicendo che era autorete e così vince Chinaglia. Sono gli anni della famosa lattina di coca-cola che mi colpisce in testa a Moenchengladbach e della finale di Coppa dei Campioni persa contro il grande Ajax del grandissimo Cruijff. Stava finendo un ciclo, ma io sarei rimasto tutta la vita se non fossi stato tradito per la seconda volta".

Come? 
"Sono in vacanza a Viareggio, a pranzo con mia moglie. Mi telefona Fraizzoli e mi dice che mi ha venduto alla Juventus. Gli rispondo testualmente: “Presidente, alla Juve ci va lei”. Invece, come la prima volta a Potenza, parto perché allora non ci si poteva rifiutare. E dopo tanti anni ho ancora la sensazione che Mazzola c’entrasse qualcosa con quella cessione, perché guarda caso uno a uno erano andati via tutti i grandi tranne lui".

Un campione interista alla Juve, oggi sarebbe impensabile.
"All’inizio è stata dura anche per me. Trovo compagni coi quali ci eravamo menati per anni, ma poi con i gol tiro tutti dalla mia parte, anche i tifosi. E in fondo andò meglio a me che ad Anastasi, passato all’Inter al mio posto e poi finito all’Ascoli, perché con la Juve vinco due scudetti e una Coppa Uefa. Alla fine sarei rimasto ancora, perché Boniperti voleva rinnovarmi il contratto. Ma ormai mi ero stancato, perché Trapattoni mi lasciava sempre in panchina. E’ stato un grande professionista, che si preoccupava persino dei tacchetti delle scarpe, ma sulle sue scelte è meglio sorvolare. Non gli ho mai perdonato la panchina a Bruges nella semifinale di coppa dei Campioni del ’78. Stiamo perdendo, ma mi fa entrare soltanto nei supplementari e siamo eliminati. Io e Bettega scherzavamo sempre a fine partita e dicevamo: “Anche oggi Giovanni non ne ha indovinata una”". 

Inter e Juve a parte, lei è stato anche vice-campione del mondo in Messico.
"Segno contro la Germania, prima di fare a Rivera il passaggio del 4-3, poi segno ancora in finale, ma non ho mai un buon rapporto con Valcareggi, che sbaglia tutto. Lasciare fuori Rivera nella finale era come lasciare fuori Pelè nel Brasile. Quando perdiamo 3-1 e Rivera sta per entrare, Domenghini e Mazzola si rifiutano di uscire e allora Valcareggi chiama me. Sono così arrabbiato che esco e gli butto le scarpe verso la panchina".

A parte queste arrabbiature, ha qualche rimpianto?
"Non aver mai allenato l’Inter. Per 13 anni ho guidato la nazionale di Serie C, lanciando tra gli altri Abbiati, Toldo, Montella, Di Biagio, Toni. Evidentemente, però, sono destinato al ruolo di amante tradito, come quella volta in cui Bedin mi anticipa l’invito dell’Inter per andare alla finale di Champions a Madrid tre anni fa. Poi, però, vengo a sapere che devo viaggiare con i dipendenti, non con i campioni della Grande Inter, e allora rimango a casa. Nessun problema, sono sempre interista, anche se non faccio nemmeno l’osservatore. Mi spiace, perché con Moratti due anni fa avevo avuto tre colloqui, prima di essere convocato in sede, quando sembrava che potessi fare il team manager. Parto presto da Mantova, ma quando arrivo a Lodi la sua segretaria mi dice che il presidente non può più ricevermi. Da allora non l’ho più sentito e da quest’anno non ho più nemmeno le tessere per San Siro".

L’estate scorsa, però, era sulla crociera nerazzurra.
"Mi hanno invitato e sono andato volentieri, anche se poi quando mi hanno consegnato le chiavi della camera, su tutti i documenti c’era il nome di Corso, che non aveva potuto partire all’ultimo momento. Pazienza, passano tutti, Moratti e Boninsegna, ma l’Inter rimane".

E lei come la vede oggi?
"Se recupera Milito, con tutti i titolari può sperare ancora nel terzo posto perché Mazzarri è bravissimo, altrimenti è da quarto-quinto". 

Thohir la convince? 
"Mi sembra un mistero. E poi, con tutto il rispetto per Ventola, che cosa si può pensare di uno che lo considera il suo interista preferito? Eppure io spero sempre".

Anche in una sua chiamata all’Inter?
"No, questo no. Dopo tutti i tradimenti, non voglio più pensarci".  

Sezione: In Primo Piano / Data: Mer 13 novembre 2013 alle 11:00 / Fonte: Gazzetta dello Sport
Autore: Alessandro Cavasinni / Twitter: @Alex_Cavasinni
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