Lunga intervista del Corriere dello Sport a Daniele De Rossi, che offre parecchi spunti interessanti tra i quali l'ammissione di aver avuto in estate la tentazione di lasciare la Roma per un altro club italiano (l'Inter?). Ecco qualche stralcio.

Concluderà a Roma la sua carriera? 
"Non lo so. Ho sempre pensato che sarebbe molto bello se io finissi a Roma. Mi piacerebbe vivere, con le dovute proporzioni, una giornata come quella che ha conosciuto Francesco il 28 maggio. Sarebbe bello vivere un saluto così intenso con i tifosi, anche per me. Non so quando, non so come. Allo stesso tempo però avverto forte il desiderio di vivere un’esperienza altrove. Anche perché sedici anni di Roma sono come trentadue anni da un’altra parte, sono impegnativi, te li senti addosso. Ringraziando Dio non fisicamente perché sto vivendo forse le migliori stagioni della mia carriera. Ma la pressione è eccessiva, spesso".  
 
E dunque? 
"Quindi questa pesantezza la senti. Io un’esperienza fuori, lontano, penso che vorrei viverla, che dovrò viverla. Sinceramente avevo deciso di farla fin dall’anno scorso: c’è stato un periodo lungo in cui non avevo contatti con la società per il rinnovo. A me non andava neanche troppo male: insomma, stavo facendo nella mia testa la mia ultima stagione, stavo giocando alla grande, quindi avrei lasciato un bel ricordo. Andava bene così. Per un certo periodo di tempo era stata questa la mia idea. L’offerta più grossa era quella di un club italiano. Ma, come si dice, non mi ha retto la pompa: non me la sentivo di tradire la città e i tifosi. Probabilmente se fosse arrivato un club europeo o americano - non è un segreto che uno dei miei sogni è andare a fare lì un’esperienza di vita e di calcio - probabilmente oggi non saremmo qui". 
  
Il momento più bello di questi anni e il momento più triste? 
"A Roma di trofei ne abbiamo alzati pochi ma quei momenti sono stati intensi. Però la cosa bella è guardare alle spalle e ricordarsi i tragitti, i personaggi, gli amici che hai conosciuto e chi non ha una bacheca piena di vittorie si aggrappa, non solo per necessità, a quelle che sono state le esperienze umane, a quelle che sono state le amicizie che hai condiviso nello spogliatoio, a quelle persone che hai aiutato o a quelle che hanno aiutato te. Poi, uscendo dallo spogliatoio, momenti meravigliosi come quegli abbracci di calore e di affetto che ho vissuto con la curva e con lo stadio in generale. In campo il ricordo più brutto che ho della mia carriera è Roma-Sampdoria, nell’anno di Ranieri. Una partita che se giochiamo mille volte la vinciamo non 999 ma mille volte. Non la dimenticherò mai perché mi fa ancora male, perché avremmo vinto probabilmente lo scudetto, anche se eravamo arrivati belli cotti a quel finale di stagione. Ma quello è il ricordo che, se avessi la macchina del tempo, tornerei indietro e cancellerei in un secondo. Metto a parte il Mondiale. Come ho detto la mia bacheca non è molto piena, quella è l’unica cosa che la fa luccicare un pochino. Un ricordo incredibile, una gioia enorme. E quasi un peccato che io l’abbia vissuto così presto perché è sempre lì, ma un po’ il tempo lo scolora. Avevo ventidue anni e non potevo avere la maturità per vivere tutto nel modo giusto. E’ un meraviglioso timbro che porti in giro per il mondo ovunque tu vada: non importa quanti minuti hai giocato, se hai preso un cartellino rosso, se non sei mai sceso in campo. Sei campione del mondo. Mi dispiace solamente non aver avuto sei o sette anni in più. Ora, sereno in tutta la mia vita, lo godrei ancora di più, lo godrei pienamente".

Sezione: Focus / Data: Sab 23 settembre 2017 alle 08:45 / Fonte: Corriere dello Sport
Autore: Alessandro Cavasinni / Twitter: @Alex_Cavasinni
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