Ezio Sarasini da Mompiano, piede vellutato, visione di gioco straordinaria, doti atletiche non comuni. Fosse nato oggi sarebbe titolare inamovibile dietro a Icardi e Palacio. Ma nasce nel 1951 ed è pronto per la prima squadra, vent'anni esatti dopo, quando la numero 10 è inchiodata alle spalle di Sandro Mazzola. "Il primo giorno in cui mi sono allenato con lui e gli altri ho capito perché giocavano e io no - dice ai microfoni di Bresciaoggi.it -. Erano fortissimi, mostri. Difficile entrare in quel giro, un onore esserci andato vicino". Vicinissimo. Nel 1971 Sarasini vince il Viareggio con la Primavera nerazzurra: 2-1 al Milan. Gioca con Ivano Bordon, Lele Oriali, Evert Skoglund. In campo c'è anche Roberto Dioni, bresciano come lui, che con Ezio e Oscar Damiani passa all'Inter dalla Viando Plodari di Mario Mantovani nel 1966. "Ci presero insieme, eravamo un bel trio. Per convincere la società ci vollero tre partite, l'ultima con i numeri incollati sul petto e sulla schiena. L'allenatore dell'Inter dell'epoca voleva tenerci sempre d'occhio e li aveva fatti stampare da ambo i lati. Era un certo Helenio Herrera". 

Quando può debuttare in prima squadra, invece, c'è l'altro Herrera, Heriberto. "Mi disse di tenermi pronto. Ma lo esonerarono prima della partita e non giocai mai". Così il ricordo migliore in nerazzurro risale agli Allievi. "Giocammo un'amichevole contro la nazionale ad Appiano Gentile. Mi allenavo con Corso, Mazzola e Jair ma il mio idolo era Rivera, quel giorno avversario. Finì 6-1 e il gol nostro lo segnai io: che orgoglio. Feci spargere la voce a Mompiano ancora in serata ma fui smentito dai giornali: diedero il gol a Silva, non fui mai creduto". Sarasini è un talento purissimo, sembra che Dio gli abbia accarezzato entrambi i piedi. "Eppure lo stesso Dio ha ritenuto che non dovessi sfondare - ammette -. Sono un cattolico praticante, ho pregato moltissimo, ma il Signore non mi ha mai permesso di fare strada". 

Nel suo destino c'è ancora la nazionale, quella dilettanti: "Giocavamo prima della nazionale maggiore, sugli stessi campi. Nel 1972 ero a Torino contro l'Inghilterra. La Gazzetta scrisse che avrei potuto giocare anche la gara dopo, con i grandi». Sarasini raccoglie tanti elogi ma non fa il salto che conta. Gioca a Gaeta, dov'è militare e conosce la moglie Diana. Quando sembra fatta con il Napoli del suo amico Oscar Damiani, il menisco fa crack. "Oggi lo curano in due settimane, allora ci voleva di più: persi Napoli". 

È lo stesso ginocchio che anni prima fa male quando l'Inter lo convoca per una trasferta di Coppa Uefa. Da Gaeta passa al Cassino, in Serie D, quindi all'Almas Roma. L'ultima squadra fuori provincia è la Viterbese, in C1. Poi finalmente si ricongiunge con Brescia: eccolo al Lumezzane. "Giocai con Nova e con Maifredi. Quattro anni splendidi dal '76 all'80". Con la nuova decade una sfida affascinante. "L'Orceana di Albini, che aveva un grande progetto: il professionismo". Così accade: "Eravamo una famiglia: io, Villa, Vaccario, Anzoni, Savoldi, Gervasi, Benedetti, Romanini». Poi è a Chiari, quindi al Montichiari, dove chiude a 40 anni. «Maifredi mi disse che sembravo Platini. Giocavo per mandare in gol gli altri. Non facevo i passaggini dei centrocampisti d'oggi. Il tiki-taka? Noi giocavamo in verticale". 
 

Sezione: Ex nerazzurri / Data: Ven 27 marzo 2015 alle 14:55 / Fonte: Bresciaoggi.it
Autore: Daniele Alfieri / Twitter: @DaniAlfieri
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