Italiani, popolo di allenatori. Senza scomodare la retorica sul popolo di santi, poeti e navigatori, questa, storicamente parlando, è stata la definizione più calzante per il popolo italico in ambito sportivo. Siamo 60 milioni di ct tutti in grado di fare la Nazionale a proprio piacimento, soprattutto siamo un popolo in grado di poterci vantare di una generazione di allenatori rinomata e acclamata, e soprattutto molto desiderata all’estero, specie in Inghilterra dove la super Premier accoglie in grembo una piccola colonia proveniente dal Belpaese. E nuovi talenti dell’insegnamento calcistico stanno sbocciando a diverse latitudini e categorie, a partire dall’ottimo capofila Eusebio Di Francesco artefice del capolavoro Sassuolo (al di là del pasticciaccio Antonio Ragusa).

 Scuola italiana al top nel mondo, dunque, tutta da vantare e da coccolare nonostante questo faccia dimenticare l’altro risvolto della medaglia: tanti allenatori di vertice che scelgono l’estero depauperando ulteriormente  i nostri campionati di valore, al di là della buona volontà di chi c’è; e soprattutto, allenatori che arrivano dall’estero, catapultati magari nella maniera più improvvisa possibile, attesi al varco dagli amanti e dagli strenui difensori dell’italica stirpe tecnica, pronti a scatenarsi al minimo errore di chi osa a venire da oltreconfine a insegnare qui, dove la qualità di allenare è, a ragione o a torto, nel dna nazionale.

Ribadisco in questa sede il concetto già espresso a suo tempo: quello di Frank de Boer di accettare di rilevare, a nemmeno due settimane dall’inizio del campionato, la guida dell’Inter dopo la burrascosa fine della storia con Roberto Mancini, è stato un atto di coraggio. Deve averne parecchia di temerarietà, il buon Frank, per chiudere anzitempo il suo periodo di riposo successivo all’addio all’Ajax per catapultarsi in quello che per lui rappresentava un autentico buco nero, un tuffo a candela in un universo assolutamente sconosciuto come quello del calcio italiano. Apparso sin da subito come una selva oscura, dove la diritta via sembra un miraggio da trovare. De Boer arriva, deve subito affrontare un’amichevole anzi no, poi si presenta con una discreta prova contro il Celtic B in Irlanda, fino al debutto in campionato. Dove però gli altarini si scoprono.

De Boer è arrivato qui in Italia con tanta abnegazione e  voglia di fare, sta facendo una full immersion nella lingua italiana ma per il momento si esprime sempre con l’aiuto del traduttore. Traduttore di grande qualità che però sul campo nulla può fare per aiutarlo a tramutare i suoi concetti in azioni concrete. Le prime due giornate della stagione in questo senso non depongono certamente a suo favore: lui ci ha messo un bel po’ di suo, per carità, specie nella prima partita quando improvvisamente ha deciso di stravolgere il suo credo preferendo affidarsi ad un modulo protettivo che però, unito alla condizione fisica precaria del gruppo che dopo pochi minuti era già in apnea, è risultato assolutamente controproducente. Col Palermo, poi, ci ha messo del suo anche la sfortuna, ma al di là di soluzioni tattiche opinabili, nei rari momenti di lucidità la sua squadra ha prodotto parecchio e avrebbe meritato di chiudere con almeno tre gol di vantaggio. Ma purtroppo, questa non è ginnastica artistica e il merito nel calcio alla fine dei conti lo si può usare per fini poco nobili.

Vittima dell’angoscia dei risultati che latitano e di una vetta della classifica che a 180 minuti DALL’INIZIO e non dalla fine del campionato viene già dipinta come assai lontana, a De Boer non vengono però concessi tutti gli alibi della situazione che è andato a ereditare. Non basta chiedere del tempo per mettere a punto i suoi meccanismi, anzi ha dovuto addirittura giocare al ribasso passando da quattro ad un mese; non basta far capire che per le mani si è trovato un gruppo praticamente costretto a cominciare tutto da zero a ridosso dell’inizio stagionale, frutto anche della gestione non proprio eccelsa delle turbolenze estive effettuata dai piani alti che ha portato alle conseguenze sotto gli occhi di tutti. Non basta affatto, perché qui l’allenatore è capro espiatorio facile e de Boer non è arrivato dotato della giusta corazza da utilizzare per risultare impermeabile ai prevedibili strali di chi lo attendeva al varco e ora si scatena fra strilli catastrofici, facili osservazioni di chi avrebbe preferito il mantenimento del vecchio ‘status quo’ senza magari ponderare l’idea che un eventuale cambio tecnico a stagione in corso avrebbe potuto avere effetti nulli o ancora più deleteri (del resto, l’ultima volta che si è cambiato un allenatore in corso d’opera non sono arrivati questi grandi risultati) perché tanto ‘il gioco quello è’, fino ai vaticini di chi vede per il tecnico di Hoorn non solo il panettone lontano da tavola a Natale, ma anche un’esperienza nerazzurra sulla falsariga di quella di Gian Piero Gasperini. Negandogli, in buona sostanza, quel tempo che mai come a lui si rende necessario per provare a venire a capo di questo caso spinoso e che invece ad altri è stato concesso abbondantemente anche quando gli schemi avrebbero dovuto essere già belli che definiti.

Consolerà poco de Boer il fatto che un altro tecnico prima di lui è passato attraverso queste forche caudine, vale a dire José Mourinho. Che però aveva le armi dialettiche e non per replicare anche al fuoco amico di chi fino a febbraio 2010 avrebbe voluto la sua testa. Chissà se Frank, una volta imparato a dovere l’italiano, ci regalerà conferenze stampa dai contenuti e dalle frasi potenti come quelle che era solito fornire lo Special One. Nel frattempo, chiede aiuto alla sosta (anche se lavorare a ranghi ridotti non è proprio il massimo) e anche al mercato. Nello specifico, ai due nuovi arrivi regalatigli da Zhang Jindong nei giorni del suo approdo in Italia (dove si è distinto per l’onorevole gesto dei 200mila euro da destinare ad aiuti per le popolazioni del Centro Italia colpite dal drammatico sisma dei giorni scorsi, ma intanto divertitevi a rimarcare il suo ‘Forza Inter’ mandarinizzato): Joao Mario e Gabriel Barbosa, detto Gabigol, stellina brasiliana con un destino da numero uno del calcio mondiale, benedetto anche dal ‘Fenomeno’ per antonomasia, Ronaldo.

 Sul concittadino di Thiago Motta e dell’ex presidente brasiliano Lula, per il momento, sospendo il giudizio, anche se Piero Ausilio ha garantito che ci farà divertire malgrado alle Olimpiadi vinte dal Brasile forse non ha convinto fino in fondo (però in Copa America ha fatto molto bene); l’accoglienza riservatagli dai tifosi in aeroporto fa comunque capire quanta attesa ci sia per lui. Nel frattempo, Joao Mario ha già assaggiato il calore di San Siro, nel corso della rapida presentazione prima di Inter-Palermo tra cori e tanti applausi. Logiche le attese considerata anche la spesa effettuata per il suo acquisto, con lo Sporting Lisbona che ha celebrato a dovere quello che è stato l’incasso più alto mai registrato per la vendita di un suo giocatore: 40 milioni.

Di questi tempi, su questi schermi, andava in scena un monito per Geoffrey Kondogbia, che avrebbe dovuto fare puntualmente i conti con l’aggravio sul bilancio comportato dal suo arrivo con conseguente ‘plus’ nei giudizi sul suo gioco. Un macigno che sembrava essersi tolto dalle spalle alla fine della stagione scorsa ma che ora pare tornare incombente: comincia a  non piacere più il suo cincischiare palla al piede, il correre con gli occhi bassi, la difficoltà nel trovare soluzioni di gioco al di là di quelle più semplici. Ma se Didier Deschamps, per rimpiazzare Yohan Cabaye, ha pensato subito a lui lasciando a casa Adrien Rabiot e Hatem Ben Arfa, due dei più citati dai sostenitori social dell’Equipe de France meno contenti, nonostante l’inizio non buono, forse, ma proprio forse, le qualità non sono andate perse.

Proprio Kondogbia, però, sembra colui che, in nome delle idee tattiche più calzanti per l’Inter che deve venire, dovrà lasciare il posto proprio a Joao Mario, forse il miglior giocatore del Portogallo di Fernando Santos campione d’Europa, capace nella finale di Saint-Denis di mettersi in saccoccia colui che nel mercato estivo è costato quasi il triplo rispetto a lui regalando un boccone amaro da digerire al Paese ospitante, anche se, va detto, al termine di un Europeo dalla cifra tecnica assai scarna dove i vincitori hanno spesso avuto la sorte dalla loro nelle varie lotterie dei rigori. E non vogliamo che anche per Joao Mario valga il discorso già fatto per Kondogbia, a maggior ragione per il fatto che sia costato parecchio di più? Anche lui, quindi, sarà chiamato a far vedere cose eccezionali in campo per giustificare il suo acquisto e per smentire i classici soloni che lo hanno già etichettato come un buon giocatore ma nulla di più, soprattutto come uno che non si sa quale della caterva di problemi veri o ingigantiti che siano potrebbe andare a risolvere.

Insomma, se per De Boer il percorso a ostacoli è già iniziato, anche per il talentuoso 23enne portoghese la strada non si preannuncia molto facile. Ma passa anche e soprattutto da loro la risalita dell’Inter, risalita da preparare come se ci fosse davanti un muro all’apparenza invalicabile come l’Everest: il cammino sarà lungo, difficile e intriso di ostacoli, ma arrivare in cima darebbe soddisfazioni impagabili. Benvenuti in Italia, dove per vincere bisogna anche fare gli ‘italiani’. E alla fine, non è sempre un male. 

Sezione: Editoriale / Data: Mer 31 agosto 2016 alle 00:00
Autore: Christian Liotta / Twitter: @ChriLiotta396A
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