Voglia di Europa, voglia di Europa che conta. Quell’Europa della quale nei giorni scorsi si sono celebrate due ricorrenze: una, dolce come lo zucchero, legata alla clamorosa rimonta dell’Allianz Arena di Monaco di Baviera, ultimo flop del Bayern Monaco che da quell’annata entra ormai costantemente nella Top 8 della Champions League; l’altra invece estremamente amara allorché sono passati sei anni dalla beffa consumata dall’Olympique Marsiglia a San Siro in quella che, a distanza di tempo ormai immemore rimane l’ultima uscita della squadra nerazzurra nel torneo, a nemmeno due anni compiuti dall’apoteosi di Madrid. Sei anni di vacche magre, di campagne nell’Europa minore condotte in maniera sempre minore fino alla mortificante esperienza della scorsa stagione, e di sorteggi per il torneo principale visti dal divano o giù di lì.

Non sono rimaste che le parole, le promesse di dare tutto per raggiungere finalmente questo fatidico traguardo che manca troppo, e non si parla solo di blasone da rispettare ma anche di benefici economici derivanti dalla partecipazione alla competizione, che di colpo potrebbero aprire nuove prospettive e soprattutto evitare nuovi equilibrismi per far quadrare il bilancio come piace all’Uefa (e se gli dei del pallone lo vorranno, questa dovrebbe essere l’ultima volta); parole però alle quali troppo spesso non sono seguiti fatti concreti, e che ormai hanno generato il disincanto, che a volte sfocia pure in rabbia, da parte dei tifosi nerazzurri, ai quali ormai anche una bella festa come quella per i 110 anni della nascita del club dà sempre quel retrogusto amaro di un passato troppo pesante da celebrare di fronte al vuoto pneumatico del presente.

Dopo il pareggio interno contro il Napoli, l’Inter di Luciano Spalletti riparte da Genova, in casa di quella Sampdoria che sarà sì reduce da una bambola clamorosa rimediata a Crotone ma che tra le mura amiche di Marassi raramente sbaglia le partite, come anche la stessa dilagante Juventus di Massimiliano Allegri ha avuto modo di sperimentare sulla propria pelle rimediando proprio a Genova una delle due sconfitte in questo campionato. Si riparte con ancora in mente anche le parole di Spalletti, che dopo la partita contro la squadra di Maurizio Sarri ha fatto suonare più volte un campanello d’allarme a proposito della qualità che latita all’interno del suo gruppo. Parole che sono state interpretate in decine di modi diversi, interpretazioni che però trovano comunque un fil rouge comune: l’Inter è ancora lontana dal tornare all’attestarsi ai piani altissimi del calcio italiano, e anche quando le cose giravano per il meglio qualche passaggio a vuoto veniva comunque denunciato, segnali che forse da qualcuno sono stati un po’ sottovalutati.

Spalletti, facendo appello all’unità e alla vicinanza della squadra, ha fatto capire che probabilmente di più, da questo gruppo, non riesce ad ottenere, cercando magari di far scattare nella mente dei propri uomini un chip, forse l’ultima scintilla, per spronarli a tirare fuori tutte le loro riserve di energia in vista di una volata per la qualificazione alla Champions League che adesso rischia di farsi più ingolfata che mai visto l’arrivo al gran galoppo dalle retrovie del Milan di Gennaro Gattuso, capace di rosicchiare punti su punti in una risalita importante che ha portato i rossoneri a far risentire nuovamente il proprio fiato sul collo ai cugini, con un derby ancora da giocare e che rischia di diventare il definitivo spartiacque per entrambe. Ma nelle parole del tecnico di Certaldo qualcuno, inevitabilmente, ha voluto leggerci un messaggio anche mandato alla proprietà, visto che ormai non si può più tirare direttamente in ballo perché il mercato è ormai chiuso e quel che è fatto è fatto ma quel che è stato fatto non è stato abbastanza, e magari lo sapevano già che non sarebbe stato abbastanza ma per rimediare poco o nulla si è fatto e così via.

Il gruppo Suning, quindi, ancora nell’occhio del ciclone: Suning che osserva impassibile, che rimane accucciata nel suo feudo di Nanchino dove però ha potuto vedere da vicino il malcontento di un piccolo gruppo di sostenitori locali, e che al di là delle dichiarazioni di Steven Zhang, che continua, a un certo punto anche colpevolmente, ad essere l’unico avamposto in territorio italiano, che davanti a Massimo Moratti ha promesso impegno per i prossimi 100 anni e anche di più, poco dice e poco pare voler dire, e che oltre ad alcune iniziative comunque di contorno come la sala trofei installata nel proprio quartier generale o la maratona di 110 chilometri lanciata ieri poco fa sentire la sua presenza e la sua attenzione per l’Inter, scatenando i malumori più disparati. Suning che vive ancora tra l’incudine e il martello, tra un presente intriso di difficoltà interne ed esterne e un’ambizione di crearsi un proprio posto al sole nel mondo dello sport. Suning che però dal lontano Oriente può osservare tranquillamente chi, in questo intento, sta riuscendo in maniera ottimale. E, va detto, un po’ contro tutto e tutti.

Impossibile non notare, per dire, come in Europa League ci siano due squadre, per così dire, particolari: i tedeschi dell’RB Lipsia, peraltro paracadutati dalla Champions League, e gli austriaci del Salisburgo, prossimi avversari della Lazio. Perché diciamo particolari? Perché burocratici si tratta delle principali espressioni dell’universo calcistico creato sapientemente da un brand, quello dei due tori rossi, che fa da sponsor, oppure, causa regolamenti un po’ cervellotici, camuffato dietro un improbabile acronimo (e questo al netto degli intrighi e degli imbarazzi burocratici derivanti da questa situazione): parliamo ovviamente della Red Bull e dell’universo sportivo che gravita intorno al marchio della bevanda energetica. Un geniale progetto di business avviato dal patron Dieter Mateschitz che pulsa particolarmente nel mondo dei motori, con sponsorizzazioni che spaziano dalla Formula 1 al cross, ma che tocca tantissimi altri sport (beach volley, hockey su ghiaccio per fare due esempi) e che sta emergendo con grande prepotenza nel calcio.

L’RB Lipsia rappresenta in tal senso il gioiellino più brillante: la multinazionale austriaca, dopo aver rilevato Austria Salisburgo e New York Metrostars ribaltandone nome e struttura, punta alla Germania e nello specifico all’ex Germania Est, il cui movimento calcistico è stato falciato nel momento della riunificazione tedesca dall’impari confronto con la maggiore potenza della Germania Federale, rilevando, non senza polemiche, il titolo sportivo di un club di un sobborgo di Lipsia, l’SSV Markranstädt, dandogli il nome di RB (ufficialmente, date le regole vigenti, acronimo di RasenBall, palla sul prato, ma con evidente rimando ai fautori dell’operazione) Lipsia e promettendo investimenti per 100 milioni di euro in dieci anni per portare la squadra ai vertici del calcio nazionale.

Missione, si può dire, perfettamente compiuta: in pochi anni i Roten Bullen irrompono sul massimo palcoscenico calcistico nazionale, e al primo anno in Bundesliga cullano a lungo il sogno di detronizzare la regina indiscussa, il Bayern Monaco, consolidando poi la propria posizione di vertice e diventando in un certo senso gli yuppies del calcio tedesco. Il tutto secondo un piano di investimenti ben ragionato, dove agli investimenti per giocatori importanti come Timo Werner o Kevin Augustin si aggiungono quelli per la formazione di giovani talenti, da condividere con gli altri club a marchio Red Bull in giro per il mondo (il Salisburgo, campione uscente della Youth League, ne è forse l’esempio più importante, anche se il fatto che tanti talenti passino con troppa baldanza dal Land Salzburg alla Sassonia non piace tantissimo alla tifoseria austriaca), con l’idea di creare un ‘microcosmo’ calcistico dove condividere calciatori, metodi, strutture (pregevole il lavoro compiuto sullo stadio di Lipsia che ospitò alcune gare del Mondiale 2006), esperienze.

La Red Bull è andata avanti in questo progetto affrontando anche a muso duro polemiche e rimostranze dei tifosi vecchio stampo (fermandosi, forse, quando sono svanite in fretta le voci legate al possibile interessamento nei confronti dell’Udinese) e i fatti alla fine le stanno dando ragione, tanto più ora che la regola del 50%+1 della Bundesliga che non rispecchia la politica effettiva del brand vacilla pericolosamente perché ritenuta limitante per la competitività dei club teutonici. Senza spendere tanto per il gusto di farlo, ma investendo in maniera saggia prima ancora che importante, gli austriaci stanno creando, comunque la si voglia vedere, qualcosa di importante. Quel qualcosa di importante che vuole costruire Suning, e che da questa case history potrebbe anche partire.

Magari facendo anche un passo in avanti in tal senso, perché magari acquisire altri club e imporre il proprio brand per loro potrebbe essere una strada impervia per tanti motivi, siano questi legati alla situazione interna cinese o ai possibili inghippi formali sulle multiproprietà (il progetto all’inizio c’era, ma è stato messo in ghiacciaia), e allora si può partire dai club già in dotazione proseguendo, al di là degli investimenti per la rosa che comunque arriveranno, con la politica delle partnership per condividere esperienze e metodi, e ben venga mandare in avanscoperta proprio l’Inter, indubbiamente il nome più prestigioso da spendere. Il tutto senza intaccare, anzi enfatizzando, il blasone e la storia. Insomma, per mettere le ali all’Inter zittendo chi parla e chi potrebbe ancora parlare solo di una mastodontica operazione di marketing.

Sezione: Editoriale / Data: Sab 17 marzo 2018 alle 00:00
Autore: Christian Liotta / Twitter: @ChriLiotta396A
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