C’era una volta il tifoso interista che viaggiava spesso per l’Europa: ma non l’Europa surrogata delle trasferte improbabili di Europa League, ma l’Europa nobile della Champions, quella dell’impresa di Stamford Bridge, della notte da eroi a Barcellona e quella della leggenda di Madrid, financo quella dell’incredibile blitz tutto cuore a Monaco di Baviera. Oggi, c’è un tifoso interista che comincia pericolosamente ad assuefarsi al pensiero di dover riscoprire l’amenità di posti tipici d’Italia come Perugia, Salerno, Pisa e la (s)comodità delle partite il sabato alle 15. Va bene, siamo presumibilmente nel campo delle utopie e dei sogni mostruosamente proibiti per i non nerazzurri; ma dopo l’ennesimo smacco subito dall’Inter in quel di Bergamo, la classifica, da piangente, è diventata addirittura disperata, visto che il gorgo della zona retrocessione dista meno di quanto non sia lontano il traguardo tanto decantato ad inizio stagione, come obiettivo assoluto, il terzo posto.

Di momenti alquanto bui la storia recente dell’Inter si può dire sia decisamente costellata, ma mai come questa volta, probabilmente, il campanello d’allarme è risuonato così presto e soprattutto in maniera così assordante. Perché qui non sono solo i risultati a latitare, anzi forse quello è diventato forse l’ultimo aspetto allarmante della faccenda: in meno di un mese, il castello di carte che sembrava venire su magari in maniera accidentata ma comunque apprezzabile visto anche il contesto tormentato nel quale è maturata questa stagione è crollato miseramente al primo alito di vento. E sul banco degli imputati, inevitabilmente, è finito l’allenatore. Frank de Boer da Hoorn si ritrova con molta probabilità a vivere uno dei momenti più brutti della sua vita agonistica, proprio quello stesso Frank de Boer che dopo l’incredibile vittoria contro la Juventus sembrava aver dato un calcio agli scetticismi e alle battutine che avevano accompagnato il suo sbarco nel calcio italiano e che adesso si ritrova improvvisamente solo, in balia delle onde e sempre più prossimo alla fine della sua esperienza. Con buona pace degli sforzi intrapresi per cominciare ad esprimersi nella nostra lingua.

Sì, qui si parla dello stesso Frank de Boer del quale, su questi schermi, fino a nemmeno troppo tempo fa si parlava con toni positivi e incoraggianti anche se il risultato pieno non arrivava: perché alla fine, malgrado le lacune ancora palesi, si vedevano comunque lampi di bel gioco, si vedeva una squadra che non mollava mai il colpo, e si vedeva un tecnico che finalmente riusciva a gestire lo spogliatoio e i casi più delicati col polso giusto, magari in modo un po’ drastico ma con metodi che sembravano comunque appropriati. Ma all’improvviso, come se durante la pausa per le nazionali fosse avvenuto un clamoroso lavaggio del cervello di massa, al momento del ritorno in campo tutte le sensazioni positive sono state spazzate via, schiacciate da una cappa fatta di gioco latente, di mancanza di idee, addirittura di indolenza se si guarda a certi interpreti. E con un tecnico finito nuovamente nell’occhio del ciclone, che pur di scansare le roventi critiche prova addirittura a sconfessare se stesso, facendo quello che davanti ai microfoni sostiene di non voler fare mai, ovvero cambiare la sua filosofia di gioco anche attraverso scelte di formazione alquanto discutibili. E tutto questo senza magari dare l’impressione di avere la totale percezione di quanto stia accadendo, e soprattutto senza che qualcuno riesca ad offrirgli una spalla e fargli da scudo, visto che le difese d’ufficio di coloro che ‘ci mettono la faccia’ nei confronti del tecnico stanno diventando sempre più blande.

La retorica della ‘pazza Inter’, quella cantata anche nell’inno per il quale il tifo fece una vera e propria crociata per riaverlo prima di ogni partita (poi arrivò ‘O Generosa’ e il tutto si vanificò o quasi) è ormai diventata stucchevole, per non dire antiquata. Perché ormai l’Inter, tutto l’ambiente Inter, sembra oggetto a una forma cronica di schizofrenia, che investe non solo il lavoro di chi commenta le vicende e deve stare dietro ai repentini cambiamenti di umore e risultati. Investe anche una squadra che non è più un gruppo da tempo pressoché immemore, e quelle parole pronunciate da Eder dopo la partita contro il Southampton sanno tanto di scoperta dell’acqua calda. Non c’è una linea guida, non c’è qualcuno che davvero prenda scudo ed elmetto e si faccia da capo condottiero, ognuno sembra più preoccupato del proprio status. Parole che rappresentano però una dolorosa evoluzione rispetto a quelle pronunciate negli ultimi anni dell’era di Ernesto Pellegrini, a memoria Davide Fontolan, che davanti ai microfoni lamentò il fatto che i tanti giocatori arrivati a suon di miliardi una volta entrati nell’Inter diventassero “mezze calzette”. Come a voler dire che se qualcosa è cambiato, parentesi gloriosa a parte, è cambiato in peggio. E in tutto questo, il tecnico, dotato di poca capacità dialettica e penalizzato dai problemi di comunicazione oltre che di tempo, può fare davvero ben poco con il rischio anzi di complicare ulteriormente le cose (anche qui, Eder funge da cartina tornasole).

Investe, soprattutto, una società e una dirigenza che da cinque anni si è progressivamente frammentata fino a diventare un manipolo di schegge che viaggiano impazzite non solo per il globo, senza un comando centrale a dettare linee guida comuni, e che anche discutendo del futuro del proprio allenatore anziché compattarsi sul dire sì o no alla sua permanenza si divide in correnti e correntine che sostengono una tesi piuttosto che l’altra, un nome piuttosto che un altro. E soprattutto, esposti senza quasi mai reagire, giunco al vento, alle continue correnti tempestose provenienti dall’esterno. In questo marasma generale, finiscono per frammentarsi anche i tifosi, che ormai assistono quasi per inerzia a questa situazione grottesca non sapendo più nemmeno se definirsi innocentisti o colpevolisti, assuefatti all’idea che alla fine nulla si vuole cambiare davvero.

E allora, tutto l’ambiente Inter si affida ad una sola speranza: quella di vedere la nuova proprietà cinese prendere per mano la situazione, una volta per tutte. Perché appare impossibile che uno come Zhang Jindong, abituato a mietere in patria successi in campo soprattutto economico, possa ingurgitare con calma tanti bocconi amari per quello che rappresenta indubbiamente l’impegno più importante della sua carriera. E allora, ecco che venerdì, giorno dell’assemblea dei soci in quel di Milano, il numero uno di Suning sarà chiamato a prendere decisioni tali da segnare in qualche modo il destino dell’Inter: starà a lui decidere quale strada intraprendere, anche pensando all’onorabilità del nome suo e del club.

Il bivio è lì davanti: o si dettano linee e regole chiare per il futuro, sgomberando il campo da ogni dubbio magari anche con la conferma di De Boer se lo ritiene opportuno, anche solo per dare un segnale concreto di vicinanza al tecnico; ma soprattutto, mettendo chiunque all’interno del club di fronte alle proprie responsabilità perché mai come questa volta il fallimento non sarebbe solo colpa di uno solo. Oppure adeguarsi all’andazzo italico, avvallando la solita pezza dell’esonero e mantenendo il disordinato status quo senza intaccare le posizioni di feudatari, valvassori, analisti e consigliori vari orbitanti dalle parti di Corso Vittorio Emanuele, in attesa di tempi migliori. Insomma, sta a Zhang decidere di aprire definitivamente la nuova era interista come fu a Jalta o affidarsi ad una semplice restaurazione in stile Congresso di Vienna che però accentuerebbe l’ammissione di colpa per una stagione i cui tormenti potevano però essere benissimo evitati con un’adeguata tecnica di ‘crisis management’. Ci pensi bene Zhang, ne va di una storia e di un onore che rischiano di appassire definitivamente. 

Sezione: Editoriale / Data: Mar 25 ottobre 2016 alle 00:00
Autore: Christian Liotta / Twitter: @ChriLiotta396A
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