Sveliamo subito il colpevole: José Mourinho. Il portoghese ha condannato l’Inter a sette anni di sfortune, lo specchio l’ha rotto lui. Sì, è una provocazione, ma il suo fondo di verità ce l’ha. L’Inter del Triplete era una corazzata inarrestabile, figlia del Generale che seppe condurla alla vittoria finale, insegnandole a rialzarsi dopo le cadute, a temere e rispettare ogni nemico, senza distrarsi dall’obiettivo ultimo: batterlo. Il carisma di Mourinho era l’elemento che univa e caricava i singoli per eccellere come gruppo. L’armata nerazzurra fece razzia in Italia e in Europa, salvo ritrovarsi senza un condottiero nel momento più bello, quello dei festeggiamenti. La Stella Polare che li aveva condotti sin lì si era persa, inghiottita dal buio della notte di Madrid, per imbarcarsi da subito in una nuova avventura, forse non del tutto sazia della ghiotta mangiata stagionale. Tre trofei in un anno non le bastavano. Non con una sola squadra. E l’Inter rimase orfana e vagabonda, schiava di un limbo che non si era cercata. La conduzione tecnica post Mourinho ha visto susseguirsi 10 allenatori in, appunto, sette anni. Il triste declino della Beneamata ha raggiunto più volte punti che, all’indomani del Triplete, non si aspettava certamente di vivere. Posizionamenti in classifica a parte, la società non ha più saputo ritrovare un’identità, una compattezza, una direzione da seguire. Non ha più avuto chi le indicasse la strada, nonostante la vecchia Stella, quella Polare, continuasse a vegliare su di lei da lontano.

La sfortuna non esiste, e se esiste non c’entra nulla. La sorte dipende da se stessi. Ogni giorno si deve lavorare per conseguire risultati, grandi o piccoli che siano. Se l’Inter ha patito sette anni amari non è perché non c’è stato Mourinho, è perché l’eredità che ha lasciato non è stata gestita come doveva essere fatto. Nessun altro Ufficiale si è seduto sulla sua panchina, nessun profilo nominato a capo della guida tecnica ha saputo tenere in pugno il gruppo di giocatori (molti dei quali dalle dubbie qualità tecniche per poter essere da Inter) con cui aveva a che fare. L’identità è andata via via smarrendosi, lasciando che il Biscione vagasse verso terre qualsiasi, dimenticandosi della meta prefissata. Per lunghi tratti una sensazione di anarchia sembrava aver preso piede nel mondo interista, conseguenza prima dello sbandamento dovuto dall’abbandono. Nemmeno le rivoluzioni societarie sono riuscite a dare la scossa necessaria. Si era arrivati a mettere in dubbio persino la figura di Massimo Moratti ad un certo punto. Erick Thohir non ha saputo dare la mano che si pensava potesse dare, e il suo regno a guida dell’Inter è durato il tempo di un periodo di transizione, prima di affidare le redini del club al potente Suning, unico vero degno ereditario del patron Moratti.

A Mourinho, ovviamente, gli interisti non possono che dire grazie. Per i trofei conquistati, ma non solo: perché se in primis non fosse stato lui Generale, l’Inter non avrebbe mai potuto assaporare il gusto di chi domina in lungo e in largo, meritando di farlo specie in base ai sacrifici. Non ci sarà mai più un Mourinho, forse nemmeno José potrebbe esserlo di nuovo. Ma dopo sette anni la sensazione è che chi riempie di speranza e buoni auspici il popolo interista è un nuovo condottiero. Che non vuole invidiare nulla a quello dei tempi che furono, pur rispettandone le imprese, ma che è pronto a scrivere una propria pagina di storia del club per cui lavora. Uomini forti, destini forti. Qualcuno a Madrid ruppe uno specchio, qualcun altro a Milano ne comprò uno nuovo.

Sezione: Editoriale / Data: Mer 16 agosto 2017 alle 00:00
Autore: Filippo M. Capra / Twitter: @FilMaCap
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