Un nuovo vento è giunto dall’Oriente, da quel lontano Oriente che un tempo ispirava viaggi pioneristici e scoperte sensazionali di una cultura lontana anni luce da quella occidentale, e che qualche secolo dopo ha saputo ribaltare clamorosamente, ma anche scientemente, le carte in tavola diventando lui stesso esploratore, per non dire colonizzatore, di mercati che un tempo sembravano sconosciuti, quasi alieni. L’espansione cinese nel calcio, esplosa in maniera veemente nel gennaio 2016 con l’acquisizione a suon di pesanti sacchi di milioni di alcuni nomi anche di grido del panorama pallonaro internazionale, un ciclone dal quale anche l’Inter ha sortito qualche effetto positivo (vedi cessione di Fredy Guarin) e proseguita per uno step ancora più clamoroso, quello dell’acquisizione delle proprietà di alcuni club europei, che pare aver toccato il suo apice in un giorno di fine giugno, con l’arrivo di Suning Holdings Group alla proprietà del club nerazzurro.

La Cina, è noto da tempo, ha deciso di fare le cose in grande nel mondo del calcio, ed è entrata con la veemenza di un elefante in una cristalleria sfondando anche le barriere dell’immaginario collettivo, conquistando due degli emblemi di Milano e della milanesità nel mondo: in attesa di vedere come finirà la vicenda Milan, l’Inter e gli interisti tutti, che comunque già qualche anno prima erano passati da una situazione all’epoca storica con l’avvento di Erick Thohir alla presidenza, sono stati travolti da questa nuova ondata proveniente dal Paese della Grande Muraglia. Un vento nuovo, che soffia forte, roba che al confronto l’operazione del 2013 che ha portato il tycoon indonesiano a rilevare il 70% del club da Massimo Moratti assume un tono decisamente minore. Ed è un vento nuovo perché regala sentimenti che sembravano smarriti chissà dove nemmeno fino a qualche anno fa: regala fiducia, regala ottimismo, regala entusiasmo per la promessa di un ritorno dell’Inter alla ‘grandeur’ che i nuovi proprietari hanno tutto l’interesse a mantenere.

Può tornare a pensare in grande, l’Inter e il suo tifo, e ha tutte le ragioni per farlo. Perché, se da altre parti d’Italia e d’Europa davanti all’arrivo dei cinesi c’è chi si è illuso finendo poi turlupinato oppure ha sentito sin da subito pizza di bruciato coi fatti che alla fine sembrano dargli ragione, all’ombra nerazzurra della Madunina non sembrano esserci motivi per temere improvvise delusioni. Perché nessun mistero pare aleggiare intorno alla figura di Zhang Jindong, leader del colosso di Nanchino, uno degli uomini più ricchi e soprattutto più in vista dell’intero Paese: personaggio costantemente dedito agli affari, figura importante e molto considerata nell’ambito del sistema economico locale, sempre attivo nella costruzione di nuove strategie aziendali o nella realizzazione di nuove partnership. E che non entra nel calcio per mero business ma anche per passione, passione che lo ha portato a costruire in patria un polo sportivo a nome del proprio marchio che comprende una squadra di calcio maschile e una femminile.

E il superbo reportage sul mondo Suning pubblicato dalla Gazzetta dello Sport nei giorni scorsi non fa altro che confermare tutte le sensazioni positive:  dall’immenso quartier generale di Nanchino alle migliaia di negozi sparsi in giro per la Cina, l’Inter sta entrando a forza nella filosofia aziendale, al punto da pensare all’inserimento di ‘stadi virtuali’ all’interno dei punti vendita per far vedere i match di Mauro Icardi e compagni ai clienti e poi invitarli a comprare i prodotti col marchio del club. Passione e business intrecciati in un armonioso mosaico, musica per le orecchie. Poi, ci sono le dichiarazioni dei vari sodali di Zhang, a partire da quel Zheng Ming che fissa gli obiettivi e parla anche di nuovi investimenti dedicati allo scopo: cose che sembrano incredibili visti i recenti chiari di luna, ma poi scopri che James Rodriguez conferma di avere ricevuto un’offerta da 85 milioni di euro da parte dell’Inter e allora capisci che, una volta sistemata la faccenda Fair Play Finanziario, niente all’orizzonte può dirsi precluso in partenza. E anche la situazione debitoria, altrove giudicata disperata o degna del fallimento, viene trattata quasi come una bazzecola, “considerati i flussi di cassa generati da Suning” (Cit. Ning Mao). Sembrano lontani anni luce in cui si attendevano come manna dal cielo i 10,5 milioni dal Sunderland per Ricky Alvarez: la causa solo a breve conoscerà (forse) la parola fine.

In tutto questo vulcano di emozioni e di entusiasmo non manca chi, però, in preda a veementi cariche romantiche, sottolinea che forse a questa società, pur con tutto il rispetto per tutte le ottime intenzioni rese esplicite, manchi qualcosa, nello specifico un’anima italiana. Perché l’Italia, e il calcio italiano a parte, ha sì pressoché rinunciato a sviluppare anticorpi difensivi chiudendosi a riccio di fronte all’arrivo di proprietari esteri, ma vuole continuare a sostenere le proprie peculiarità perorando la tesi che nessuna rivoluzione è mai davvero attuabile senza la guida di almeno un Virgilio che sappia condurre i nuovi proprietari nei meandri della realtà italica. Troppo spesso si è rimproverato a Thohir di avere trapiantato nell’Inter un management troppo esterofilo, un errore (?) che i cinesi non dovrebbero ripetere. E allora, ecco che torna prepotentemente alla ribalta un nome la cui storia mai smetterà di prendere un binario parallelo a quella dell’Inter: quello della famiglia Moratti, in primis dell’ex presidente Massimo, il cui ritorno alla presidenza viene caldeggiato da più parti. Marco Tronchetti Provera, tanto per fare un nome non a caso, spinge facendo leva sulla passione e la competenza, mentre il diretto interessato dice e non dice, non esponendosi più di tanto ma rivelando di avere ricevuto richiesta esplicita dai cinesi stessi.

Il dibattito, come logico, infiamma: il ritorno di Moratti sarebbe utile alla nuova causa interista? Oppure rappresenterebbe un orpello un po’ fine a se stesso, se non addirittura una limitazione alla voglia di fare e di avere il controllo delle operazioni di Zhang e compagnia? La questione non sembra così facile da dirimere, perché, se è vero come è vero che le pagine di antologia scritte dall’Inter hanno avuto la famiglia di petrolieri come filo conduttore, è altrettanto vero che molti tifosi faticano a digerire la catena di situazioni problematiche, a volte sfociate nel dramma quando non nel grottesco, che ha contraddistinto soprattutto la gestione degli anni post-Triplete (senza magari stare a fare le pulci anche al periodo pre-2006).

Tematica Moratti, quindi, da maneggiare con molta cautela. Anche se comunque una strada che porti ad una soluzione di buonsenso c’è, visto che lui non si è mai negato al ruolo di consigliere per la nuova realtà; per cui, si potrebbe anche ponderare una proposta di conciliazione con un Moratti di nuovo in sella, anche se a titolo non operativo, con una percentuale al di sotto di quel 10% che farebbe scattare il ‘diritto di veto’ e potrebbe causare delle problematiche delle quali in questo momento tutti ne faremmo a meno. Un Massimo Moratti, insomma, re in una ‘monarchia costituzionale’, con un ruolo di rappresentanza e magari di mentore verso i nuovi proprietari, soprattutto quello Steven Zhang da lui più volte elogiato e che potrebbe essere erudito al fine di rilevarne un giorno il testimone, potrebbe essere l’ideale ponte tra tradizione e modernità. Che poi lui possa accettare o meno una soluzione così, beh, questa è un’altra storia.

Sezione: Editoriale / Data: Mar 11 ottobre 2016 alle 00:00
Autore: Christian Liotta / Twitter: @ChriLiotta396A
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