Accade sempre ma nessuno sa dire perché. Puntualmente, ogni anno, l'Inter si perde e il gruppo si sfalda, si disunisce, perde la bussola e tira a campare sino alla fine della stagione promettendosi di non ripetere gli stessi errori il campionato seguente. Nel mentre di questo sgretolamento progressivo e sistematico, i tifosi nerazzurri hanno assistito alle più assurde spiegazioni e scenate possibili: attraverso dichiarazioni non sempre velate il rischio di puntare il dito contro l'altro, che fosse egli l'allenatore o un compagno di squadra, era dietro l'angolo, pronto ad abbracciare e soccorrere l'imputato di turno che doveva rispondere alla domanda di routine del cronista. Molti si rifugiavano nel futuro (non che ora non accada), nelle ambizioni, nella volontà a parole di migliorare e lasciare tutto sul campo il match seguente, per dimostrare di essere quel che andavano professando. Non tutti però davano seguito alla loro produzione verbale, tanto efficacie di fronte a una telecamera, quanto distruttiva sette giorni dopo.
In tutti questi periodi bui, e parole spese quando il silenzio avrebbe per lo meno evitato ai più di compiere figuracce ritardate, un signore, da tempo finito nel mirino dei tifosi, riusciva ad emergere dalla massa dei ripetenti per assumersi responsabilità non sempre sue. Chi? Andrea Ranocchia. Il centrale nerazzurro ha attirato a sé, da diversi anni a questa parte, insulti, minacce e commenti che considerarli 'critica' vien da strapparsi gli occhi dal volto. Le prestazioni, è vero, molto spesso non lasciavano spazio a lodi, ma da qui al tentativo di annientamento della persona, beh, ne deve passare. Si parla pur sempre di uno sport per quanto la comunità ne sia coinvolta. Di ragazzi e uomini che si ritrovano davanti a migliaia di tifosi paganti presenti allo stadio per lo spettacolo e per il risultato, per vedere trionfare la propria squadra del cuore e pretendendo che la maglia venga onorata sempre, che chi la veste ne sia effettivamente degno. Tutto giusto, tutto chiaro. Ma quando si parla di dignità lo si fa rivolgendosi a una persona nella sua totalità. Non solo dal punto di vista del calciatore. Di quando sbaglia o di quando fa bene. Perché non assistiamo a una partitella tra amici il giovedì sera su un campo di calcetto dove, una volta terminata, finisce tutto. Siamo testimoni di una crescita agonistica e personale di protagonisti che in quel momento storico vestono la casacca nerazzurra non solo in campo. E Ranocchia ne è l'esempio limpido. Mai una parola fuori posto, mai una presenza inopportuna davanti alle telecamere anche quando gli sono state riservate le parole più becere.
Testa alta e petto in fuori, sempre. La lucidità di analizzare i propri errori e i motivi per i quali la squadra ne ha sofferto, con la consapevolezza che uno non fa una squadra, ma che tutti possono aiutare il singolo in difficoltà. Ranocchia quando è chiamato a metterci la faccia per chiedere scusa e agire da leader non si tira mai indietro. I supporter nerazzurri da sempre fanno della lealtà, della serietà e dello stile il proprio cavallo di battaglia per reagire agli sfottò e alle ingiustizie perpetrate negli anni da altri club, per tenere alto l'onore della Beneamata e distinguersi dal resto d'Italia. Ma quando queste tre cose vengono umanizzate e prendono le sembianze del numero 13, sembra quasi che (molti di loro) se ne dimentichino e non si accorgano di quel che è sotto i loro occhi. Parliamo dell'uomo, della sensibilità di una persona, oltre che di un professionista. Del coraggio di sfidare gli insulti e le maledizioni per voler crescere sempre di più, sia dentro che fuori dal campo, a livello individuale e di gruppo. Parliamo dello spirito di un capitano che non necessita di vestire una fascia per poter compiere il proprio mestiere, in silenzio, con vera dignità e per il bene comune, della società e dei tifosi.
E i miglioramenti tecnici personali arrivano di conseguenza, dopo tanto lavoro e sacrificio. Dopo aver riconosciuto i propri limiti, averli accettati fatto in modo che le proprie qualità possano sempre essere d'aiuto ai compagni seppur per soli pochi minuti, o per l'intero match. Quando chiamato in causa da Luciano Spalletti non ha mai disatteso le aspettative. Qualche sbavatura, qualche incertezza, certo, ma non credo che nell'organico dell'Inter attuale si contino 11 Messi o Cristiano Ronaldo (a seconda di chi vi sta più simpatico). Ranocchia indossa la maglia nerazzurra come fosse una seconda pelle, sempre. E il lavoro più difficile non è tenere a bada l'Immobile di turno, è aiutare il gruppo a restare compatto e coeso per uscire dai momenti oscuri che attraversa. E' anche grazie a personaggi come lui se lo spogliatoio e l'ambiente tutto riesce a trovare una quadra dopo un periodo di estrema difficoltà. E c'è da ringraziarlo soprattutto per quanto fa lontano dal palcoscenico nazionale della domenica, per l'impegno quotidiano che impiega per sposare veramente quel che l'Inter rappresenta. L'umiltà di saper di essere uno in un insieme di componenti che troppo spesso pensano di essere tre, quattro, cinque, ma anche zero. E chi dopo tutto questo tempo non è riuscito ad accorgersene, beh, non è nemmeno un problema di diottrie: è questione di sensibilità, la stessa che in molti non hanno considerato quando lo crocifiggevano nella pubblica piazza. Se il gruppo non si sfalda è anche merito suo. Meno male che Andrea c'è.
Autore: Filippo M. Capra / Twitter: @FilippoMCapra
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