C’era una volta il calcio italiano a cavallo tra i due secoli. Quello dove imperavano i grandi mecenati, da Massimo Moratti a Silvio Berlusconi passando per Sergio Cragnotti e Callisto Tanzi, quello del fenomeno delle sette sorelle e delle spese folli anche per giocatori perlomeno opinabili. Un calcio, però, dove tutto sembrava andare bene e dove si parlava anche con grande leggerezza anche di valutazioni impossibili, di scambi di giovani calciatori per semplice tornaconto economico e di passivi esorbitanti. Un calcio che grazie alla legge firmata da Massimo D’Alema scoprì la contrattazione individuale dei diritti televisivi con conseguente mungitura in dosi industriali di liquidi presi allo stremo dalle pay-tv portate al collasso, soldi però destinati esclusivamente al lato, per così dire, superficiale del gioco (leggi acquisti e ingaggi dei calciatori) senza minimamente pensare con un pizzico di lungimiranza a fattori come infrastrutture societarie, vivai, nuovi impianti.
Un calcio all’insegna dei ‘circenses’, insomma, del ‘chi vuol esser lieto sia, del doman non v’è certezza’, o meglio, del domani non si vuole avere pensiero. Del resto, nemmeno troppi anni addietro era già stata buttata via senza troppo rimuginarci su l’occasione di Italia ’90, quando il calcio italiano avrebbe potuto davvero tracciare la via del calcio del futuro e degli stadi di nuovissima generazione, e invece, tra un aumento di spese vertiginoso e l’altro, alla fine ci si è accontentati di stadi nuovi sì, ma decisamente poco consoni alla visione di una partita di calcio (del resto, tra i vari progettisti e architetti uno divenne famoso per essersi vantato di non aver mai visto un match in vita sua) o di stadi ristrutturati un po’ alla bene e meglio. Nessuno ci ha pensato, forse ancora abbacinato dalla favola del campionato più bello del mondo; nessuno, sicuramente, poteva prevedere che qualche anno più tardi ci sarebbe stato un prezzo da pagare, un prezzo salatissimo.
Perché accade che altre leghe decidono di muovere passi decisi verso il futuro, decidendo di offrire un prodotto spettacolare ma al tempo stesso dotarlo di tutto quanto è necessario per garantirgli il contorno ideale; la First Division inglese si trasforma in Premier League e dopo aver posto un argine, seppur con colpevole ritardo, al fenomeno degli hooligans, il campionato d’oltremanica si è ingegnato alla grande nella vendita del prodotto coi risultati che oggi sono sotto gli occhi di tutti: euro a pioggia, diritti tv che valgono quanto l’oro, neopromosse che solo per il fatto di essere arrivate nel massimo campionato nazionale incassano tante di quelle sterline da poter pensare di permettersi acquisti di altissimo livello (magari anche con l’aiuto di personaggi molto interessati…). La Germania ha saputo creare un modello di gestione invidiato da tutti, anche se ultimamente sta presentando qualche crepa, mentre la Spagna, alle spalle del consueto duopolio Real Madrid – Barcellona, ha visto nascere una buona borghesia calcistica che alla fine qualche risultato lo porta sempre. In Italia, invece, a fronte di rarissimi casi virtuosi abbondano notizie di difficoltà finanziare, cessioni societarie, bilanci che boccheggiano, fino a episodi che vanno ben oltre il paradosso.
In questo quadro si è andato a inserire un altro fattore che sta condizionando in maniera cruciale quello che è il sistema del calcio europeo in questo momento storico: il Fair Play Finanziario, il ‘grande mostro’ che fa paura a tutti o quasi tutti. Quel meccanismo di regole ai limiti della perversione nato allo scopo di frenare le spese pazze dei magnati e la conseguente preoccupante tendenza ad accumulare debiti che stava portando il football sull’orlo del default, voluto con forza dall’ex presidente dell’Uefa Michel Platini anche su spinta, come da lui più volte dichiarato, degli stessi presidenti che volevano che venisse creato dall’alto un sistema di autoregolamentazione che da dentro era francamente difficile anche solo da ipotizzare. La rivoluzione voluta dall’ex stella della Juventus, però, ha portato sì ad una drastica riduzione dell’indebitamento generale, ma non ha affatto sanito le profonde ferite del sistema calcio, anzi ne ha in qualche modo allargato i margini.
Chi pensava che frenando i ‘ricchi’ i ‘poveri’ ne avrebbero tratto in qualche modo giovamento si è sbagliato di grosso: il calcio altro non ha fatto che seguire l’andazzo dell’economia globale generale, dove chi ha più soldi ha finito con l’averne sempre di più ampliando il gap con chi invece ha dovuto fare i conti con anni di difficoltà. La necessità di aumentare i ricavi ha creato quel circolo vizioso per il quale chi, in un modo o nell’altro, ha saputo avviare in anticipo la macchina raccogli-soldi alla fine ha avuto garantite entrate continue e di conseguenza maggiore vantaggio competitivo, oltre ad una maggiore impermeabilità verso eventuali sanzioni considerando la base ricavi amplissima. Non solo: si assiste anche ad un fenomeno di ‘doppia forbice’ tra grandi e piccole che si verifica a livello nazionale ma anche a livello internazionale dove alcune grandi che in patria dominano, al cospetto di altre diventano un po’ meno grandi. La prova ne sia il fatto che anche in Champions League la gerarchia pare essersi bene o male cristallizzata.
In tutto questo, è evidente come chi è rimasto indietro alla fine deve scalare l’Everest per poter pensare anche solo di avvicinarsi a livelli più alti. E questo lo sanno soprattutto i club italiani: lo sa l’Inter e la famiglia Zhang, in primo luogo. Che più volte è stata accusata di rifugiarsi dietro il paravento del rispetto del Fair Play Finanziario per giustificare mancati investimenti, senza pensare che bisogna fare i conti con la ben nota tagliola del settlement agreement, del bilancio in pareggio da presentare necessariamente il 30 giugno dopo essersi giocati nel primo anno dell’accordo il jolly del passivo a -30 milioni e dei conseguenti equilibrismi sulle plusvalenze, roba che riuscirci per il secondo anno consecutivo senza dover essere costretti a privarsi di un big sarebbe un capolavoro degno di applausi.
Capiremo se dal prossimo luglio, complice anche il ritorno in Champions, ci sarà più libertà, di certo la proprietà, a suon di sponsorizzazioni in patria, nascita di academies e altre operazioni, sta cercando in ogni modo di trovare rimedi al problema, con risultati altamente apprezzabili. Ma non solo l’Inter è alle prese con questo problema: della situazione critica del Milan sappiamo tutti, ma anche la Roma fatica a godersi l’ottimo risultato dell’ultima Champions League visto il pigro andamento della crescita dei ricavi e, a rigor di logica, ai nuovi arrivi già ufficializzati dovrà in qualche modo corrispondere una cessione pesante. E anche la Juve che domina da tanti anni in Italia, pur partendo da una base decisamente migliore delle altre, non considera mai pellegrina l’idea di mettere a segno una plusvalenza importante a bilancio con una partenza di peso, come si è visto negli anni scorsi e come si sta provando a fare anche quest’estate.
Stanno per arrivare nuove regole, sta per nascere il Fair Play Finanziario 2.0; e anche l’Italia sembra pronta ad adottare un sistema di licenze nazionali che viaggia su questo stesso binario. Ma le novità annunciate, alcune comunque importanti come l'obbligo della pubblicazione dei bilanci e di tutte le informazioni di rilievo sul web, altre invece rivedibili come la tolleranza di un passivo da 100 milioni nella bilancia di mercato, previa presentazione di preventivo di ammortizzazione del rosso, danno comunque la sensazione di rappresentare poco più che dei palliativi, delle misure magari apprezzabili che però non danno a prima vista una concreta soluzione al suddetto problema. Aleksander Ceferin, nuovo numero uno dell’Uefa, più volte ha ribadito di voler scongiurare l’idea di una Superlega e di tutelare quella che è la manifestazione per club più importante e spettacolare del mondo. Ma siamo sicuri che ormai non sia già quello il destino? Non siamo sicuri che ormai la strada verso un calcio spaccato tra un patriziato oligarchico, ricco e potente, una classe media che più di tanto non può e una plebe numerosa e modesta non sia già tracciata?
Verrebbe davvero voglia di avere il moto d’orgoglio del ragionier Ugo Fantozzi, che dopo anni di vessazioni continue trova la forza di salire sul palco della sala proiezioni e di sbattere in faccia all’aguzzino Guidobaldo Maria Riccardelli la sua recensione semplice e diretta de ‘La corazzata Potemkin’ di Sergej M. Ejsenstein. Ma senza voler ambire ai 92 minuti di applausi né arrivare ad eventuali sganassoni fisici, è evidente che il fastidio c’è. E fa male dare adito all’amaro pensiero che ancora una volta chi si impegna per rispettare le regole passa per il fesso di turno.
Autore: Christian Liotta / Twitter: @ChriLiotta396A
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