'Imperiali', 'nel mito', 'estasi' e 'romantada' sono solo alcuni titoli di apertura che campeggiavano sui principali quotidiani sportivi nazionali e non per celebrare l'impresa da leggenda compiuta dalla Roma contro il Barcellona all'Olimpico martedì sera. Un'ode autentica all'irrazionalità del calcio che poi è il minimo comun denominatore che tiene uniti sotto un unico cielo i tifosi dello sport più bello del mondo, quegli inguaribili passionali che vivono un'intera vita per vedere almeno una volta con i loro occhi l'impossibile diventare possibile.

In fondo, il football – come diceva Pasolini – è l'ultima rappresentazione sacra del nostro tempo, e come tale ha una sua componente religiosa da professare come un rito che dura 90 minuti. Un sistema di segni, un linguaggio attraverso il quale tifosi, allenatori, giocatori e presidenti comunicano tra di loro ben consapevoli che stanno disquisendo di una materia solo in parte oggettiva. "Non è una scienza esatta", si dice spesso parlando del calcio. E in ogni week-end in cui un pallone comincia a rotolare su un rettangolo verde sistemato a qualsiasi latitudine già sappiamo che ogni nostra teoria sul mondo che regola quel Gioco verrà puntualmente smentita da alcuni fatti, magari anche illogici a una prima lettura superficiale. Il calcio è prima di tutto un atto di fede che si perpetua attraverso singolari paradossi che di tanto in tanto si fa beffe dell'intuizione.

La cinque giorni di calcio europeo cominciata sabato pomeriggio e conclusasi mercoledì sera con la beffa atroce in pieno extra time dalla Juventus non fa eccezione in questo senso: da spettatori privilegiati affacciati alla finestra che dà sul cortile del calcio europeo abbiamo assistito al ribaltamento dello status quo nel derby di Manchester, dove José Mourinho nell'intervallo ha letteralmente rianimato i diavoli rossi dello United, trasformandoli dai clown alla festa da titolo del City visti nel primo tempo ai giocatori capaci nella ripresa di rovesciare l'esito di un trionfo annunciato rimontando da 0-2 a 3-2. L'altro ieri, come detto, la cronaca si è colorata di giallo e di rosso grazie all'apoteosi confezionata dall'ex carneade Eusebio Di Francesco, portato in gloria in Italia dopo essere stato 'preso a schiaffi' per aver fatto un turnover troppo spinto con la Fiorentina tre giorni prima di avere la presunzione di scalare l'Everest di tre gol da recuperare al cospetto di Messi e compagni.

In mezzo, più modestamente a livello di prestigio e posta in palio, la strana partita dello stadio Grande Torino dalla quale l'Inter è uscita mordendosi le mani per colpa di qualche episodio avverso di troppo che ha determinato la sconfitta immeritata. "Ci sono stati dettagli che ci sono girati contro che era più facile andassero nel senso opposto", ha poi commentato Luciano Spalletti in conferenza stampa, riferendosi con particolare attenzione alla circostanza rocambolesca che ha portato al gol del vantaggio di Adem Ljajic. Un'azione nella quale è entrato suo malgrado da improvvido protagonista Ivan Perisic, con quel retropassaggio a metà strada che voleva trovare D'Ambrosio ma che è diventato ghiottissimo assist per la sovrapposizione letale di De Silvestri. "Se non ci fosse stato D'Ambrosio – ha aggiunto il tecnico di Certaldo – la pedata Ivan gliela poteva dare più forte per buttarla in angolo". 

Come a dire che niente nasce dal niente: la concatenazione di eventi che porta a una rimonta clamorosa in terra continentale o a un semplice gol incassato che determina un ko tra i confini nazionali in una gara di campionato risponde alle stesse leggi non scritte del calcio. Il caso o qualsiasi nome si voglia attribuire a quella componente di imponderabile che esiste nel mondo reale è uno strumento che può diventare pericoloso se sfoderato da uno addetto ai lavori a uso e consumo per il commento di un risultato. Se non si segna per 180 minuti, tra derby e Torino, è inutile dare la colpa ai pali, al portiere, all'arbitro o al Var, l'ultimo degli alibi più in voga. Da subito è bene analizzare i motivi che concorrono alla mini-crisi davanti alla porta, che in realtà è un problema ancestrale che affligge la rosa da prima dell'inizio stagione: dal mercato, infatti, non è arrivato né il trequartista di inserimento alla Nainggolan col vizietto di bucare il portiere né l'esterno che porta in dote un buon bottino di segnature. "L'Inter in quel reparto deve comprare dei gol, una dose ragguardevole per sollevare Icardi da un problema atavico, ossia che segna solo lui. Vogliamo cercare i gol", faceva giustamente notare Walter Sabatini a Brunico quando veniva sollecitato sulle domande relative all'ingaggio di Di Maria.

Niente di tutto questo, in estate è arrivato sul gong solo l'acerbo Yann Karamoh ad ampliare la batteria degli avanti nerazzurri, il cui fatturato alla voce 'gol segnati' fa registrare un insufficiente 37. Gioie distribuite poco democraticamente tra Icardi (24), Perisic (9) Eder (3), Karamoh (1), Pinamonti e Candreva (0). Maurito e Ivan, in soldoni, hanno segnato il 66% delle reti del totale di squadra, rappresentata solo da altri 8 realizzatori: Skriniar, con 4 gol, è il terzo marcatore assoluto davanti alla pochezza del centrocampo (6 in totale contando i 3 di Brozovic, i due di Vecino e il solo di Borja Valero). Dati che non diranno tutto, ma che obiettivamente, arrivati a sette giornate del traguardo, informano che la rosa è stata allestita male. "Non so più come dirlo, ogni tiro che va fuori dallo specchio della porta è sbagliato – aveva ammonito Spalletti un girone fa dopo il pari col Torino in casa a chi gli parlava di sfortuna -. Siamo contenti di quello che abbiamo ricevuto e siamo fortunati perché siamo lì a giocare contro squadre forti, stiamo facendo quello che dobbiamo fare".

Cinque mesi dopo le parole di Lucio sono attualissime, sintomo del fatto che nel mentre è cambiato poco o nulla: al netto dei legni colpiti (Inter primatista in Serie A con 20), degli episodi controversi del Var, delle sviste arbitrali e di avversari baciati dalla Dea bendata, la Beneamata continua a galleggiare nelle zone alte della classifica, a recitare la sua parte con tutti i pregi e i difetti di fabbricazione del caso, pur non potendo permettersi di ammiccare al proprio destino tutt'altro che manifesto di finire nella top 4: ad oggi è impossibile dire se il futuro premierà la squadra in qualità di terza-quarta forza del campionato o la condannerà come quinta e prima delle deluse della bagarre Champions League. Un'incertezza spiazzante come il paradosso del mentitore riscritto in chiave interista: "La proposizione secondo la quale l'Inter andrà in Champions è falsa". Nessuno, ad occhio, riuscirà a dimostrare la veridicità dell'assunto fino al 20 maggio. 

Sezione: Editoriale / Data: Gio 12 aprile 2018 alle 00:00
Autore: Mattia Zangari / Twitter: @mattia_zangari
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