Non è sicuramente la prima volta negli ultimi anni che l’Inter esce dallo stadio di San Siro con un pareggio contro una squadra, per così dire, abbordabile, che oltretutto era reduce da due incontri esterni senza vittorie e con un pesante bottino di gol sul groppone. Ed è innegabile che questo risultato lasci l’amaro in bocca soprattutto per il fatto che, se quella palla di Andrea Ranocchia fosse stata indirizzata qualche centimetro più sulla sinistra, Angelo Da Costa sarebbe stato costretto a recuperare la sfera dal fondo del sacco e tenerla in mano con un 2-1 che a quel punto sarebbe diventato irrimediabile. Ma questa volta, forse, è un pareggio che, almeno parlando a titolo personale, mi lascia comunque con una sensazione diversa rispetto a quelli patiti in altre circostanze. Per meriti del Bologna di Roberto Donadoni che in fin dei conti non ha demeritato anche se a un certo punto sarebbe entrata anche nel diritto di fare qualcosa in più. Ma soprattutto, per meriti dell’Inter, un’Inter che pur rallentando ha dato una bella immagine di sé.

L’inizio di campionato da brividi, purtroppo assolutamente da mettere in preventivo visto il contesto storico che ha accompagnato l’avvio di questa stagione, sembra ora solo un lontano ricordo: questa è un’Inter che piace e vuol farsi piacere. D’accordo, magari rispetto a quella vista con la Juventus e con l’Empoli, la versione nerazzurra andata in scena contro i felsinei ha forse sofferto qualche preoccupante retaggio del passato recente, pensando magari all’ennesima partita vissuta di rincorsa o a certi atteggiamenti difensivi non consoni. Ma una volta aggiustata la situazione ecco una squadra che a tratti riesce a sciorinare una facilità di gioco che nella mente dei sostenitori sembrava perduta in chissà quale lontano ricordo. È soprattutto un’Inter dove si sta notando progressivamente il marchio di fabbrica di Frank de Boer. 

Si merita tanti ‘bravo’, il tecnico di Hoorn, per come ha affrontato sin qui la nuova realtà italiana: bravo nello sforzarsi a parlare italiano dopo poche settimane di permanenza, ma bravo anche nel cercare di instillare nella squadra questa nuova mentalità. Bravo anche nell’affidarsi senza alcun timore a giovani che però, nella sua visione molto olandese delle cose, tanto giovani poi non sono: e allora dentro dal primo minuto Senna Miangue, dentro Assane Gnoukouri che, dati alla mano, ha già superato in poche giornate i minuti di impiego rispetto allo scorso anno, quello che si prospettava essere della consacrazione. E bravo anche a porre tanta fiducia in Andrea Ranocchia, che domenica si è beccato parecchi improperi per l’occasione divorata nel finale, che però altro non sarebbe stata che la ciliegina sulla torta di una gara interpretata nel migliore dei modi, con alcune chiusure difensive specie nella ripresa che hanno blindato il risultato. Se questi sono i primi effetti della cura, si può comunque sorridere.

Ma nel riavvolgere il nastro di quanto visto due giorni fa, non si può non tornare a quello che alla fine è stato proprio il fatto per antonomasia: la sostituzione di Geoffrey Kondogbia al minuto 28 del primo tempo. Un fatto, anche questo, assai inconsueto per il vivere calcistico nostrano, ma arrivato al termine di uno spicchio di partita che ha portato il povero De Boer all’esasperazione. I motivi di tale drastica decisione sono già stati ampiamente spiegati dal tecnico stesso; in questa sede ci si può solo rammaricare per il progressivo smarrimento di un giocatore arrivato tra mille aspettative e che non sembra più trovare la luce in fondo al tunnel delle proprie ansie. Abbiamo speso fiumi di parole in difesa del ragazzo di Nemours, e le prestazioni delle ultime partite della scorsa stagione sembravano comunque aprire a spiragli futuri interessanti. Ma alla lunga l’ex Monaco ha dimostrato di non riuscire a liberarsi dalle proprie paturnie, anzi. Nemmeno la convocazione a sorpresa in nazionale pare avergli giovato: Kondogbia è ancora un oggetto del mistero, macchinoso e cincischiante palla al piede, che non riesce ad avere l’adeguata visione di gioco e perde sempre almeno un tempo. E se poi non arriva più a fare quello che gli riesce potenzialmente meglio, ovvero proteggere il pallone e uscire con disinvoltura anche da attacchi di 2-3 avversari, allora il campanello d’allarme diventa fortissimo.

Non riesce più nemmeno a fare le cose più semplici, Kondogbia; e tale lacuna è accentuata dall’arrivo di uno che invece ha saputo stupire per aver dato in tempi rapidissimi al centrocampo nerazzurro quel tocco in più che non si vedeva da anni: il riferimento è ovviamente a Joao Mario, capace sin da subito di adeguarsi ai meccanismi della sua nuova squadra e in grado di offrire quelle doti che sanno fare la differenza, ovvero linearità di gioco, precisione, presenza costante e fantasia. Un arrivo del quale ha beneficiato tutta la sua squadra, prova ne siano le difficoltà patite in sua assenza (con la viva speranza che l’infortunio in un punto generalmente infido non causi più noie del dovuto). Il confronto in materia di contributo offerto, a un certo punto, è diventato addirittura imbarazzante per il transalpino, finito in breve tempo sotto la mannaia di De Boer.

Il mister olandese che ancora una volta fa parlare di sé per le sue decisioni pane al pane e vino al vino nei confronti di chi sgarra, in campo o nello spogliatoio. Dopo Marcelo Brozovic, accantonato per una chiara insubordinazione, è toccato al francese pagare di tasca propria il mancato rispetto dei compiti assegnati. La scelta sul campo gli ha dato ragione, visto soprattutto il rendimento di Gnoukouri, e la maggior parte degli addetti ai lavori sembra stare dalla sua parte anche se c’è chi non manca di criticare sottolineando come mosse del genere possano generare nervosismo o essere la sentinella di un feeling con lo spogliatoio non ancora sbocciato (come se tenere in panchina il proprio giocatore più forte e pagato per oltre 70 minuti di un match importante a prescindere sia invece sintomo di grande gestione della rosa). De Boer si sta cucendo addosso l’etichetta, forse nemmeno troppo gradita, di ‘sergente di ferro’, di decisionista senza se e senza ma; più semplicemente, è un allenatore che ha fissato subito delle regole ben precise e che vuol fare che il vento, forse, è cambiato, e che se questo gruppo vuole tornare a raggiungere traguardi importanti deve capire che nessuna distrazione è concessa.

Insomma, Frank de Boer sta cercando di creare una precisa gerarchia e una precisa disciplina all’interno del gruppo, insieme al proprio staff che lo supporta fino in fondo e col quale condivide la stessa empatia e la stessa tensione nel vivere le partite: rimarrà a lungo impressa nella memoria la reazione scomposta e veemente di Orlando Trustfull all’errore di Ranocchia, forse pittoresca ma comunque significativa. C’era una volta, a torto o a ragione, quello che veniva chiamato il ‘clan dell’asado’, quello degli argentini che davanti alle grigliate di carne, secondo le leggende metropolitane, decideva buone e cattive sorti dello spogliatoio. Qui, adesso, c’è invece uno staff tecnico di timbro olandese che impone davvero una disciplina a tutto il gruppo dall’alto. E qui sgarrare sembra davvero proibito; se il copione sarà rispettato con tutti i giocatori, anche guardando oltre il peso specifico nella rosa, allora per De Boer sarà davvero una grande vittoria. 

Sezione: Editoriale / Data: Mar 27 settembre 2016 alle 00:00
Autore: Christian Liotta / Twitter: @ChriLiotta396A
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