È una strana sensazione quella che ti pervade quando insegni calcio a certi avversari. E, soprattutto, ti fa godere sportivamente ancora di più ascoltare o leggere scuse a metà tra il poco plausibile ed il poco credibile rilasciate da un signore in pieno rosicamento interiore e già che ci siamo pure esteriore, con una mappazza che ancora non è riuscito a mandar giù. Mi ha dato l’impressione, il signore in questione, di aver ingerito quelle quattro/cinque (in realtà solo due ma meglio abbondare in certi casi) uova sode che gli sono inesorabilmente rimaste sulla bocca dello stomaco. E non c’è nulla da fare, da lì non si spostano. Sì, lo confesso, è una sensazione strana, alla quale ero disabituato; colpa di una carestia prolungata che sembrava non avere fine. Ohi, intendiamoci, non è che adesso siamo una squadra fortissima, imbattibile, incredibile, pazzesca, inimmaginabile. Però siamo una squadra. Ed è già un passo avanti di grande importanza.

Il vocabolario riporta alla voce squadra: gruppo di persone che hanno uno stesso compito, o che lavorano insieme per uno stesso obiettivo. Ed in questa settimana ho avuto il piacere di osservare come tanti buoni suonatori stiano cercando di lavorare insieme per trasformarsi in una orchestra gradevole da ascoltare. Un esempio calzante; ho visto Jovetic, da molto oggetto dei miei strali e delle mie elucubrazioni mentali, alzarsi dalla panchina al momento del gol di Perisic ed andare, insieme a tutti i compagni, ad abbracciare l’esterno croato. Un minuto dopo, poco prima dell’uscita di Santon e mentre Miangue si stava preparando ad entrare, chiacchierare fitto fitto col ragazzino consigliandolo. Tranquillizzandolo. Come un fratello maggiore. E quando mai? Ripeto, ma quando mai! Queste erano cose che capitavano col Cuchu, con Saverio, con Samuel. Anni che non le vedevo. Roba da lacrimuccia sulla guancia.

Ora, cosa sia successo dalla prestazione non commentabile fornita contro onesti pedatori provenienti da Israele al successo in quel di Empoli, non è dato di sapere. Così come, rileggendo certi articoli o riascoltando certe registrazioni che viaggiano in rete a tutt’oggi, mi viene complicato non sorridere - che ridere potrebbe risultare offensivo -  mettendole a confronto con ciò che si racconta ultimamente. Sì, insomma, abbiamo un rubicondo signore in panchina che settimana passata era un incapace, ci mancava solo di intendere e di volere, pronto ad essere defenestrato al primo passo falso, inadatto ed inadeguato. Oggi è il nuovo Messia. Perché un minimo di equilibrio non può esistere.

Lo confesso candidamente, io temevo molto per i miei colori con l’avvento in panchina di FDB; e non mi vergogno ad ammetterlo. Frank, innegabile, proviene da un campionato dove le pressioni stanno a zero, se non sottozero; dove le partite che contano sono forse tre nel corso di un’intera stagione; dove non c’è una squadra che nell’ultimo decennio abbia detto qualcosa di interessante in ambito europeo; dove i migliori prospetti sono radunati in una Nazionale che non si è manco qualificata agli Europei della scorsa estate, inserita in un girone che certo non era terribile. Insomma, qualcosa di cui dubitare esisteva, almeno per me. Ma ho colpevolmente dimenticato dei suoi trascorsi da calciatore, passati in una grande squadra – l’Ajax di Amsterdam –, vincendo tutto quello che c’era da vincere, nel vero senso della parola, a livello di club. Colpa grave, certo, ma non mi fustigherò per questo; sono semplicemente felice di aver trovato, sembrerebbe, un allenatore che con la filosofia del lavoro e della tranquillità sta cercando di costruire un puzzle che altri prima di lui hanno lasciato incompiuto. Chi colpevolmente, chi meno. Ma sempre incompiuto.

Mi hanno chiesto qualche giorno fa cosa mi piace di Frank de Boer da Hoorn, paesone di oltre settantamila anime situato nella provincia dell’Olanda Settentrionale e capoluogo della Frisia Occidentale (no, nel frattempo non ho seguito un corso intensivo di geografia ma mi sono letto Wikipedia); la serenità che trasmette, ho risposto. Perché ora è facile comporre peana per il vittorioso tulipano, ma mica mi scordo dei Capello in anticamera, dei Prandelli fuori dalla sede, di tizio o caio non si capiva bene chi o cosa o dove. Perché questo è stato scritto. Dieci giorni fa. E carta canta. In un caos mediatico dunque che voleva il nostro eroe già sostituito in caso di sconfitta contro i rivali di sempre, a me hanno raccontato che sarebbe rimasto comunque al suo posto perché il progetto che si è scelto di percorrere lo prevede in panchina, l’allenatore gemello di Ronald non ha perso nemmeno per un minuto la calma. Una specie di muro di gomma sul quale tutto rimbalzava; critiche, battutine ed ironie comprese. Niente, manco una piega. L’esatto contrario di quello a cui eravamo abituati negli ultimi anni, trascorsi tra morsi a bottigliette di plastica ed incazzature difficili da nascondere. Tra schemi di gioco noiosi tanto da consigliare gli spettatori a fornirsi di plaid e cuscini prima di recarsi al Meazza ed il non gioco totale dove ognuno faceva quello che gli pareva, in un orgasmo calcistico privo del benché minimo costrutto. 

L’immagine che ho è quella del Frank che si stupisce per il bailamme intorno ad una sconfitta, che non comprende per qual motivo ad un allenatore arrivato da cinque minuti non debba essere dato il tempo necessario per spiegare ai suoi uomini ciò che lui desidera sia fatto sul terreno di gioco. Il tutto con serena consapevolezza. Che è riuscito, evidentemente, a trasmettere anche alla squadra. Lo dico senza poterne avere la controprova, ma niente mi toglie dalla testa che in altri momenti storici e con altri tecnici in panchina oggi non staremmo respirando aria fresca e nuova ma saremmo attaccati da destra e da sinistra, gettati nel solito sconforto che ci ha accompagnati per anni. E massacrati senza sosta. Perché sì, perché indubitabilmente il nuovo tecnico ha una lunga serie di meriti fino ad oggi; ma non scordiamoci, sarebbe intellettualmente e non solo disonesto, la Società ed il peso specifico che sta avendo nella rinascita dell’Inter che sarà. 

Eravamo abituati, siamo sinceri, ai nani da giardino, ai saltimbanchi ed ai clown che al primo alito di vento contrario correvano tra le braccia del proprietario di turno; il mister non mi capisce, non mi vuole bene e mi mette sempre in disparte erano i ritornelli preferiti. Ed il proprietario di turno, invece di spedirli a pedate in un qualche recesso a meditare sui propri errori, apriva entusiasticamente il portafogli aumentando ingaggi senza un senso logico. Così, giusto per non far dispiacere il ragazzino che si presentava piangente.

Capita dunque che, probabilmente ingolosito da racconti appartenenti ad un passato non certo remoto, qualche procuratore si sia cullato pensando di essere arrivato nel paese del Bengodi di boccaccesca memoria. Solo che no, solo che adesso qui le salsicce non si usano più per legare le vigne, non ci sono nemmeno montagne di parmigiano reggiano ed i fiumi sono pieni d’acqua e non di Vernaccia. Pertanto, se qualcuno la fa fuori dal vaso, c’è solo e soltanto un responsabile tecnico; l’allenatore. Che ha potere di vita e di morte (sempre sportiva, intendiamoci) sui propri calciatori. Decide lui chi, decide dove, decide come e decide quando. Ti ha trattato male, poverino? Ecco, e chissenefrega. È un problema tuo e con l’allenatore lo devi risolvere. E quando una Società ti fa capire, se non ci arrivi tu tranquillo che ci arriva il tuo procuratore, che o fai come dice chi sta in panchina, o ti metti a correre e a lavorare seriamente, o la smetti di fare il bamboccione strapagato e certo di poter essere riciclato da qualche parte (porta i soldi, poi te ne vai dove ti pare. E lo dico da mo’), oppure il tuo posto è sul divano di casa beh, tranquilli, allora anche gli epici di turno si calano le braghe e tornano all’ovile con la coda tra le gambe, chiedendo scusa. Altro che non convocato senza motivo.

Mi piace. Mi piace proprio il nuovo corso. E mi è piaciuto, giusto per parlare di calcio un altro minuto, l’atteggiamento col quale i ragazzi sono scesi in campo ad Empoli. Prima mezz’ora dove si poteva essere quattro a zero e tutti a casa. Situazioni lontane mille e mille e mille chilometri dagli approcci penosi di qualche mese fa, quando sembrava che ti facessero financo un favore a scendere in campo. Pare davvero che la ruota si sia messa a girare per il verso giusto.

Oggi c’è il Bologna. Potrebbe essere anche il Real, ma l’approccio alla gara deve essere lo stesso. Non contano né nome né blasone di chi hai di fronte. Noi siamo l’Inter, sono gli altri che devono aver paura quando salgono gli scalini che portano al terreno verde del Meazza.
Amatela. Sempre.
E buona domenica a Voi!

Sezione: Editoriale / Data: Dom 25 settembre 2016 alle 00:00
Autore: Gabriele Borzillo / Twitter: @GBorzillo
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