Premessa: zero sospetti e zero illazioni. Le risse verbali coi pensieri obnubilati dal becero tifo fazioso le lasciamo volentieri a chi ha voglia e tempo di portarle avanti. Qui non ci sono crociate, non si insinuano complotti e non si sventolano bandiere. Ma se tutti noi vogliamo un calcio italiano più attraente e più meritevole, certi discorsi andrebbero affrontati e risolti. Nessuno si sogna di trovare la soluzione dall'oggi al domani, però il porre la questione ci sembra un buon punto di partenza.

Ovviamente – ma l'avrete capito dalle prime righe – si parlerà di arbitri e, più in generale, di lealtà sportiva. Il mondo pallonaro italiano, evidentemente, rispecchia il Paese. Nel bene, ma soprattutto nel male. Tralasciando gli scandali del passato, soffermiamoci all'oggi. E la quotidianità ci racconta di un campionato spaccato in tre parti, forse in quattro: lotta scudetto che sfuma in lotta Champions; tranquillità; retrocessione. Oltre al danno (quasi tutti i verdetti sembrano già emessi a gennaio), c'è la beffa. E la beffa è l'assistere a partite per lo più spezzettate, senza ritmo, senza pathos. E, purtroppo, piene zeppe di proteste e simulazioni di ogni genere. E' questo il calcio che vogliamo esportare? E' questo il calcio del quale andare fieri?

Senza andare troppo lontani, restiamo ai fatti di casa Inter. Nello specifico, alla partita del Barbera. La questione arbitrale si pone non tanto nel singolo episodio, quanto riflettendo sul metro di giudizio, che poi è la discriminante più rilevante nei 90 minuti di gioco. Nel primo tempo, Irrati ha fischiato tre falli praticamente identici, con l'uomo che entrando in scivolata con ritardo atterrava l'avversario: uno a inizio match (Rispoli su Miranda), uno poco dopo il 20' (Ansaldi su Bruno Henrique) e uno alla mezzora (Nestorovski su D'Ambrosio). Una dinamica ripetuta anche al 79' (Ansaldi su Nestorovski). Totale: quattro falli del tutto assimilabili. In due casi, l'arbitro ha deciso di non sanzionare. Negli altri due, invece, sì. E ne ha fatto le spese sempre Ansaldi, espulso per doppio giallo (peraltro con il secondo cartellino sventolato ai suoi danni quando questi era ancora dolorante al terreno: una dinamica sbagliatissima come ogni buon corso arbitrale potrà confermarvi).

Una direzione di gara, quella del fischietto di Pistoia, ampiamente insufficiente pure per altri aspetti. Ma non vedere un rigore in mischia ci sta, sbandierare un offside errato per millimetri è umano, prendere un abbaglio capita. Quello che però lascia interdetti è, appunto, l'arbitrarietà del metro di giudizio, che sovente muta addirittura nella stessa partita e non solo nell'arco di un campionato. In precedenza, in Juventus-Lazio, era stato ammonito per proteste Immobile (che aveva effettivamente subito fallo), mentre, pochi istanti prima, Higuain non era stato sanzionato nonostante i rimbrotti veementi e plateali contro il guardalinee (e il fuorigioco segnalato all'argentino era anche corretto).

Insomma, qui nessuno pretende arbitri perfetti. Ma che ci sia uniformità di giudizio.

L'onestà bisogna pretenderla innanzitutto dai giocatori, che ormai vanno a protestare in massa anche per un fallo laterale a metà campo e che non vedono l'ora di simulare in ogni zona del campo: un malvezzo che andrebbe estirpato con giornate di squalifica e con multe su multe. La simulazione non è altro che la sublimazione dell'antisportività per eccellenza. Il punto più basso che può toccare un atleta, perché si va a deturpare il principio fondante dello sport, ingannando l'avversario, l'arbitro e gli spettatori.

Ecco perché scene come quella di Buffon che abbraccia Tagliavento sarebbero da evitare. Non viviamo in un mondo perfetto, tantomeno in un calcio perfetto. L'ufficiale di gara deve restare parte terza nella contesa, va rivestito della sacralità del ruolo. Ben venga il dialogo in campo, ben vengano le spiegazioni delle proprie decisioni ed è corretto progredire grazie alla tecnologia. Ma l'arbitro rimane un giudice e come tale va trattato. Poi può esserci un rapporto gradevole tra le varie componenti protagoniste in campo, fatto finanche di stima reciproca e, perché no, di simpatia. Ma il rispetto dei ruoli deve essere salvaguardato, specialmente in un contesto isterico e per nulla lineare come quello descritto fin qui.

Si riparta dalla trasparenza e dalla competenza, e non dal "volemose bene". Si inizi a ragionare seriamente sulla qualità dei nostri arbitri e non ci si trinceri dietro i soliti luoghi comuni ("Sono i migliori d'Europa"). I giocatori siano leali e non truffaldini. Aiutino l'arbitro magari ammettendo che la palla aveva varcato la linea di porta e non abbracciandoli a fine match. I tifosi siano tali e non facciano sempre e solo i faziosi: i due approcci vanno ben distinti sia per le cause che per gli effetti. E i giornalisti comincino ad avere il coraggio di parlare e scrivere anche fuori dal coro quando occorre. Siano meno approssimativi, meno accomodanti, meno svogliati nella ricerca. Soprattutto, siano meno assuefatti e riscoprano il Sacro Fuoco dell'informazione .

Il giochino del "C'è chi può e chi non può", francamente, ha stufato.  

Sezione: Editoriale / Data: Mar 24 gennaio 2017 alle 00:00
Autore: Alessandro Cavasinni / Twitter: @Alex_Cavasinni
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