Per qualcuno sta diventando monotono, per altri, compreso il sottoscritto, le conferenze stampa di Luciano Spalletti rimangono fonte non dico d'ispirazione, ma di spunti interessanti. Magari non è così, probabilmente non è così, ma sembra che il dirimpettaio della follia ti dica sempre la verità quando risponde a una tua domanda. Il dubbio resta lecito, perché in un ambiente ipocrita come quello del calcio è difficile mostrarsi totalmente trasparenti e chi lo fa spesso subisce i contraccolpi della buona fede.

È accaduto allo stesso Spalletti dopo Inter-Napoli, quando molti dei suoi giocatori erano soddisfatti di prestazione e risultato, salvo poi ricevere una bastonata tra capo e collo ascoltando il parere del proprio allenatore, che ha sottolineato la mancanza di qualità della squadra. Un concetto espresso a caldo, che non ha trovato, causa tempi serrati nel dopo gara, il suo più naturale sviluppo, dando così adito alla fantasia degli operatori dell'informazione che l'hanno tradotto in un j'accuse contro calciatori e società. Il giorno dopo il certaldino ha chiarito meglio il proprio parere, in occasione di una premiazione a Empoli, sottolineando per l'ennesima volta di essere sempre disponibile ad analizzare certi temi di dubbia comprensione all'esterno, onde evitare fraintendimenti che tutto fanno tranne il bene dell'Inter.

Anche ieri, a domanda diretta, Spalletti ha ribadito il proprio pensiero sul concetto di qualità: “Noi cerchiamo soluzioni, cerchiamo di metterci qualcosa in più, più caratteristiche per far sì che la somma faccia una squadra fortissima come abbiamo bisogno di essere. Nella nostra qualità c'è dentro il carattere, la personalità, il passo, il modo di interpretare le partite. A volte non ce la mettiamo tutta, io dico le cose per far sì che ci sia una presa di considerazione e un riconoscimento che possiamo fare di più”. Lineare, quasi scontato. Perché la qualità ha mille significati, non è semplice tecnica di alto livello.

Che la rosa dell'Inter non sia al pari di altre, come il Napoli, la Juventus, la Roma, in parte la Lazio e il Milan, non è un mistero. Lo sapevamo tutti sia il 1° settembre sia il 1° febbraio, quando è arrivato il tempo dei bilanci dopo le ultime due sessioni di mercato. Quello che ha portato l'Inter in vetta alla classifica fino a inizio dicembre è stata la convinzione di non essere inferiori a nessuno, di potersela giocare contro chiunque dando il proprio massimo e a prescindere dal valore di ogni singolo giocatore. Sarà una banalità, ma più dei piedi e dell'organizzazione tattica, è la testa che fa la differenza. A qualsiasi livello, in qualsiasi ambiente di lavoro o personale. Senza la consapevolezza di potercela fare, il talento non vale nulla. È per questo che un giocatore come Rino Gattuso ha calcato i palcoscenici più importanti del calcio e oggi ha restituito dignità al Milan. È per questo che gente come Mario Balotelli o Antonio Cassano non hanno saputo sfruttare i doni che madre natura ha consegnato nelle loro mani.

La testa domina su tutto, la mentalità spezza gli equilibri. E questa qualità l'Inter l'ha persa per strada, forse in quella grottesca serata milanese in cui il Pordenone andò a due rigori dall'eliminare i nerazzurri dalla Tim Cup. Un pericolo scampato che però ha avuto l'effetto di un elettroshock nella testa di chi ha partecipato o semplicemente visto dall'esterno. Da quella sera, la squadra ha palesato enormi limiti, soprattutto psicologici. E a cascata sono emersi tutti gli altri che già erano presenti, ma che Spalletti e il suo staff avevano mascherato grazie al lavaggio del cervello positivo su ogni singolo calciatore. I risultati sul campo ne sono stati una diretta e tristemente evidente conseguenza.

Il tecnico probabilmente non si aspettava un crollo così verticale, però sapeva che al primo scoglio avrebbe dovuto testare la forza mentale della propria squadra. Il test non ha dato esiti positivi e oggi non resta che prendere atto dei timidi miglioramenti visti nelle ultime uscite. Contro il Napoli la personalità dell'Inter è riemersa, l'approccio è stato quello giusto e l'avversario se n'è reso conto subito. L'interpretazione della gara non fa una piega, a conferma del fatto che forse la convinzione di potercela fare sta tornando. Peccato però che non sia stata ancora a livello tale da poter portare a casa i tre punti, perché il calcio è un gioco semplice: vince chi fa gol. E i nerazzurri, in questa specialità, non brillano particolarmente.

Ieri Spalletti ha sottolineato la necessità di continuità e la Sampdoria è un'opportunità per dimostrare che il peggio è alle spalle e la prestazione contro il Napoli non è casuale. Ci aspetta una trasferta durissima, così come un prosieguo di calendario che non invita all'ottimismo. Ma mollare adesso sarebbe un suicidio, come quello ai limiti dell'imbarazzo della scorsa stagione. La tendenza è quella di pensare già alla prossima, anche perché la dirigenza si sta muovendo in tal senso. Peccato però che non sarà la squadra virtuale ad affrontare una tignosa Sampdoria tra qualche ora. Saranno gli stessi giocatori che hanno fatto sognare il popolo nerazzurro salvo poi trascinarlo nuovamente nella depressione, portando voti al partito del 'Lo avevo detto'.

Lo spartiacque tra la resurrezione e la decadenza è lì: non resta che decidere da quale parte andare. I calciatori dimostrino di essere ancora dalla parte dell'allenatore, che li ha protetti nella buona e nella cattiva sorte. Tra le tante qualità che pensano di avere, tornino a mostrare quella più importante.

Sezione: Editoriale / Data: Dom 18 marzo 2018 alle 00:00
Autore: Fabio Costantino / Twitter: @F79rc
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