Lunga intervista a Massimo Moratti del Guerin Sportivo. L'ex presidente dell'Inter si è concesso per parlare del suo affetto verso i colori nerazzurri, dei ricordi più belli e di quelli più tristi, rivisitando la sconfitta del 5 maggio 2002...
Dottor Moratti, quanto le manca l’Inter?
"Non mi manca, perché non l’ho mai lasciata. Sono tornato quello che ero prima, cioè un tifoso. Sia allo stadio, sia davanti al televisore. Oltretutto sono contento di come stiano andando adesso le cose. Non è che se uno è un tifoso debba per forza gestire la squadra per cui tifa…".
Lei però di questa squadra è stato il presidente per quasi due decenni.
"Sono cambiati i tempi, già da un po’. Per una famiglia, per quanto ricca, è impossibile gestire un club con ambizioni internazionali. Tutto deve essere inserito all’interno di una logica finanziaria e industriale, come è nel caso di Suning. Se invece le ambizioni sono minori, oppure si vuole comandare in una realtà di provincia, allora la gestione familiare può senz'altro funzionare ancora oggi".
Il momento più bello della sua presidenza? Facile dire Madrid.
"La Champions League è stata la fine di un percorso, da interisti abbiamo apprezzato più le difficoltà dell’arrivare fin lì che il risultato finale. La prova è che quella coppa nemmeno siamo stati capaci di godercela, pochi festeggiamenti e l’addio di Mourinho".
C’è qualcosa che non è mai stato raccontato, a proposito della partenza di Mourinho per Madrid? È sembrato strano che lei non abbia fatto di tutto per trattenerlo.
"Già un anno prima Mourinho stesso mi aveva informato che c’era un interessamento del Real nei suoi confronti. Poi la cosa si è ripetuta. Non si possono tenere prigioniere le persone ma certo non è stata bella la modalità, con la macchina di Florentino Perez fuori dal Bernabeu la sera della finale. Mourinho stesso si è pentito del suo gesto ancora prima di compierlo: poche ore dopo, nel mio ufficio a Milano, mi disse che si era reso conto che stava per andare in un’azienda, non in una famiglia, e che se avessi voluto sarebbe rimasto all’Inter. Gli dissi di fare liberamente le sue scelte, come del resto ho sempre detto a tutti. Certo le sue lacrime erano vere e mi fa piacere che ancora oggi dica che la sua squadra è l’Inter".
Sono tanti i colpi storici che per varie ragioni suo padre Angelo sfiorò, da Eusebio a Pelé. Qual è quello mancato da lei?
"Facile la risposta: Cantona. Un giocatore e una persona che mi faceva impazzire, il destino ha voluto che dopo averlo seguito decine di volte in televisione insieme ai miei figli lo fossi andato per la prima volta a vedere in quella partita del Manchester United con il Crystal Palace, quella del calcio al tifoso. Non fu un bel gesto, ma nella confusione generale mi innamorai di Paul Ince, che già apprezzavo come giocatore. Ince si scagliava contro tutti, poliziotti, avversari, tifosi, addetti vari, pur di difendere il suo compagno. Sembra strano dirlo, ma in quelle botte c’era più il desiderio di proteggere un compagno che violenza. Non a caso Ince sarebbe venuto all’Inter, mentre per Cantona purtroppo non ci sono stati i tempi giusti. Lo andai a trovare diverse volte a casa, ma si era ormai stancato del calcio e dopo la squalifica, due anni dopo, si sarebbe ritirato. Quanto ai colpi che mio padre sfiorò, ne cito uno di cui non si è mai parlato, Uwe Seeler".
Il punto più basso della sua presidenza è stato il 5 maggio 2002?
"Non racchiudo in quella data tutti i mali del calcio e dell’Inter, come in molti fanno. Sono circolate tante versioni e tanti retroscena, ma posso dire con certezza che quella Lazio-Inter è stata persa durante la settimana che l’ha preceduta: troppa sicurezza da parte dei giocatori più importanti, troppa fiducia nell’arrendevolezza della Lazio, con all’opposto un Cuper che si macerava con i suoi presentimenti negativi. Servivano invece equilibrio, serenità. Mi ricordo che intervenni, ma purtroppo si era ormai creato un clima sbagliato. Di certo mi dà molto fastidio quando si ricordano gli errori di Gresko, perché quella partita fu persa dai giocatori chiave, i campioni, quelli che devono trascinare gli altri".
Il titolo del libro, ‘Aspettando Moratti’, vuole rappresentare un certo giornalismo da strada che negli anni si è un po’ perso. Certo è che i cronisti la aspettavano sotto casa, mentre non facevano la stessa cosa con Agnelli e Berlusconi. Si è sentito trattato dai media in maniera diversa rispetto ai suoi colleghi, soprattutto per quanto riguarda giudizi e ironie?
"Ognuno ha il suo carattere e il suo stile, fra i giornalisti e fra i presidenti, ma non mi sembra giusto fare la vittima. Per quanto mi riguarda, preferivo che i giornalisti sapessero le notizie sull’Inter da me, che ne ero responsabile, invece che da altri canali".
Con quale giocatore c’è stato un rapporto al di là di quello calcistico?
"Dal punto di vista tecnico ho sempre avuto le mie preferenze, non solo Recoba, ma in generale ho sempre tenuto al rispetto dei ruoli. Anche quando mi sono trovato di fronte bravissimi ragazzi, e anche quando la frequentazione è stata lunga, come con Zanetti, è chiaro che loro mi vedevano sempre in un certo modo. Giusto così".
La sua Inter del cuore è stata quella del primo anno di Ronaldo, quella quasi tutta italiana allenata da Simoni?
"Ma come? Dicevano che non avevamo italiani… Quella era una squadra davvero emozionante, anche se inferiore a molte di quelle che sarebbero arrivate. C’erano però il miglior giocatore del mondo e uno spirito giusto, mi è rimasta nel cuore".
Ci sarà un altro Moratti presidente dell’Inter?
"Fecero la stessa domanda a mio padre e lui disse ‘Chi lo può dire? Non posso rispondere per conto dei miei figli’. Ecco, la mia risposta è la stessa".
Autore: Filippo M. Capra / Twitter: @FilMaCap
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